Il Campo largo è stato la negazione del centrosinistra. Fin dal nome: era un modo di dire centrosinistra, vergognandosi perfino di dirlo. Infatti, ne hanno fatto parte, di volta in volta, leader che rifiutano questa definizione
Non è vero che il Campo largo è morto a Bari. Il Campo largo non è mai esistito. È sempre stato una semplice espressione geografica, utilizzata per definire quel pezzo di Italia che espressione geografica non è, perché esiste e in queste ore guarda attonito a questo ennesimo tentativo di omicidio politico, a due mesi dal voto europeo. Sì, non è un suicidio, come si scrive pigramente, ma è un tentato omicidio contro la speranza di un’alternativa al governo delle destre.
È un pezzo di Italia niente affatto di minoranza e neppure minoritario, come credono i commentatori dei giornali, anzi, è maggioritario. È quel pezzo di Italia che si riconosce nei valori della Costituzione, nell’uguaglianza e nella giustizia sociale, nel lavoro, nella sanità e nell’istruzione pubblica, nella democrazia che significa rimuovere gli ostacoli, ogni generazione ha i suoi. Un pezzo di Italia che non discrimina per genere, per colore della pelle, per condizione economica e sociale, per orientamento sessuale e per questo è istintivamente antifascista. Sul piano elettorale non si riconosce in un partito, o forse non va a votare, ma continua a definirsi di sinistra o di centrosinistra.
Il Campo largo è stato la negazione del centrosinistra. Fin dal nome: era un modo di dire centrosinistra, vergognandosi perfino di dirlo. Infatti, ne hanno fatto parte, di volta in volta, leader che rifiutano questa definizione. La rifiutano Matteo Renzi e Carlo Calenda, che pure sono stati ex protagonisti del centrosinistra.
La rifiuta soprattutto Giuseppe Conte, che così giustifica la sua disinvoltura nel saltar dentro e fuori. Più che largo, è un campo affittato a ore. L’elettore di centrosinistra anonimo, senza etichette, segue con disgusto la vicenda di Bari: l’inchiesta sui voti comprati, la vanità dei capibastone, i giovani leoni come Antonio Decaro che dovevano conquistare il partito e l’Europa e si ritrovano spaventati davanti al cerchio di fuoco, le primarie convocate e sconvocate.
Ma ad accusare di trasformismo il sistema-Puglia di Michele Emiliano, il Campo Laqualunque, è spesso quel tipo di politico e di commentatore che poi, a livello nazionale, va matto per le larghe intese, le grandi coalizioni, l’appoggio al governo di qualsiasi colore, l’idea che non ci sia differenza tra destra e sinistra, che l’unica misura sia il consenso raggiunto, il successo che attrae le Maurodinoia d’Italia. Definirsi riformisti, fuori e dentro il Pd, ha significato per anni trafficare con chiunque, ovvero il trasformismo su larghissima scala. «Il pragmatismo che si pone sfacciatamente come giustificazione di se stesso», lo chiamava Giulio Bollati in L’italiano (Einaudi, 1983). «Distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri i temi dell’avversario per svuotarli di contenuto, contrasti in pubblico e accordi in corridoio.
Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale». Il trasformismo è l’altra faccia del populismo. Così, a Conte non interessa nulla la costruzione di un’alternativa a Giorgia Meloni: non lancia una sfida aperta a Elly Schlein per guidarla, ma per distruggerla come prospettiva, con il disegno di restare l’unico punto di riferimento dei progressisti perché gli altri sono stati eliminati. È l’unico punto che lo accomuna, ma non è poco, agli avversari Renzi e Calenda.
Tutti pensano che a scegliere c’è solo da rimetterci, a restare mobili di qua e di là, sopra o sotto il banco, c’è molto da guadagnare. A meno che non cambino i rapporti di forza. L’elettore di centrosinistra si ritrova così, di nuovo, senza possibilità di vittoria. Un problema che riguarda l’intera democrazia italiana. Non esiste democrazia compiuta senza una opposizione che ha speranza di diventare governo, soprattutto se dovesse passare il premierato. Ma se il Campo largo non esiste, per la segretaria del Pd Elly Schlein non ci sono alternative.
La fatica nel tenere insieme una coalizione che per ora non c’è va impiegata interamente per cambiare il partito che guida, soprattutto in vista delle elezioni europee in cui si vota con la proporzionale, senza alleanze. L’unico contributo che si può dare all’alternativa, in questo momento, è la costruzione di un partito che l’elettore anonimo possa tornare a votare, o votare per la prima volta, senza turarsi il naso, non perché è un voto utile, come negli ultimi anni, ma perché dà voce a quel pezzo di Italia di sinistra e di centrosinistra che è il pezzo che c’è nella società, ma non c’è nella politica italiana.
Il vero antidoto ai trasformismi è una identità che non si nasconde, non si vergogna, non si confonde nell’indistinto della politica, in cui si annidano anche gli stregoni del voto sporco, semmai torna a mescolarsi con un popolo senza rappresentanza. Almeno questo punto di vista l’indignato comizio di Schlein sul palco di Bari può essere un nuovo inizio. L’ira dei miti, infatti, è qualcosa che l’elettore di centrosinistra senza casa politica capisce perfettamente. Incazzato ma non disperato da anni, grandemente apprezza. Non per sempre, però.
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