La favola che ci viene propinata è che la democrazia è dominio della maggioranza. Appartiene a chi vince, con tolleranza verso chi perde e si ostina a votare e magari a scendere in piazza. Sembra il clone del regime ungherese
Piazze piene + urne piene = democrazia immatura. Piazze piene + urne semi-piene = democrazia polarizzata. Piazze semi-piene + urne piene = democrazia irreggimentata. Piazze vuote + urne semivuote = democrazia matura.
Queste quattro somme sono la sintesi delle posizioni degli opinionisti impegnati nei media, video e cartacei, per illuminarci su cosa sia una buona democrazia e, soprattutto, una cattiva democrazia.
La somma più gettonata è l’ultima, quella più disprezzata è la prima. Quelle intermedie sono mediamente cattive, accettabili al massimo come transizioni verso la soluzione ideale.
Anzi, la seconda suggerisce che il troppo manifestare nelle piazze polarizzi l’opinione e allontani gli elettori dalle urne, per paura non per buona apatia. La terza somma corrisponde alla vecchia democrazia dei partiti, quando la gente scendeva in piazza a comando e votava a comando.
La vera alternativa è tra la prima e l’ultima somma, per ricamare sulla quale i nostri esperti di democrazia si mobilitano con l’obiettivo di spostare l’opinione a favore della riforma costituzionale. Nei talk show quotidiani, ci sono spesso ospiti che si lanciano in fantastiche lezioni di teoria politica. La generalizzazione che va per la maggiore è la seguente: l’astensionismo è un segno di buona salute e di maturità della democrazia, ma a certe condizioni.
L’apatia e la stabilità
L’apatia politica come segno di stabilità non è affatto un’idea nuova; nuovo, e fantasmagorico, è l’uso che ne fanno i nostri opinionisti. Nelle società democratiche, dicono, i cittadini si dimenticano di andare a votare, tanto la loro società è normalizzata.
Non l’astensionismo di protesta, dunque (quello che si è verificato, ad esempio, in Emilia-Romagna alle elezioni regionali del 2014, quando solo il 37 per cento è andato a votare per criticare il modo in cui il Pd ha costruito le liste elettorali).
L’astensionismo buono, invece, nasce dall’idea che tutto è per il meglio. Perché preoccuparsi di andare a votare? Il voto, ci viene detto, non è una partecipazione per esprimere una scelta tra le proposte avanzate da partiti o coalizioni. Se così fosse, saremmo ancora in una democrazia di regime.
Ma una democrazia matura non è una partecipazione al voto al termine della quale si conta chi ha temporaneamente la maggioranza e chi è temporaneamente all’opposizione. Questa sarebbe una democrazia che sente il valore del voto e sa quanto sia importante l’opposizione, non solo la maggioranza. Troppo conflittuale.
Invece, sembra di capire, nelle democrazie mature il voto serve per portare alla vittoria, il resto è un orpello. È razionale preoccuparsi di votare per vincere. Un’argomentazione assurda, ovviamente. Ma serve a far credere ai telespettatori che restare a casa pensando di perdere sia una scelta economica.
Anche perché non cambia nulla: le elezioni non vengono abolite e la palla passa a chi vince. Come sempre. Che votino, dunque, coloro che ritengono di poter vincere (i sondaggi guidano la decisione). I cittadini che ragionano così sono maturi.
Quelli che scendono in piazza e votano per i partiti di opposizione sono irrazionali e immaturi. La favola che ci viene propinata è che la democrazia è dominio della maggioranza. Appartiene a chi vince, con tolleranza verso chi perde e si ostina a votare e magari a scendere in piazza.
Sembra il clone del regime ungherese, dove a fronte di una super-maggioranza, ottenuta con riforme funzionali della Costituzione, c’è ora un’opposizione parlamentare irrisoria e piazze vuote. Una democrazia matura.
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