- La campagna elettorale americana è passata senza troppi drammi, e il risultato dello scontro non si è rivelato particolarmente eccitante.
- Questo, nella grammatica delle elezioni americane, segnala un problema. Alexis de Tocqueville nel suo sempiterno La Democrazia in America scrive che la campagna elettorale è il momento in cui «l’intera nazione brilla di una eccitazione febbrile».
- La campagna conclusasi questa notte è apparsa invece sottotono, non soltanto per le ovvie ragioni sanitarie globali, ma perché arrivata dopo quattro anni di esagerazione emotiva come condizione normale del discorso politico.
Al netto di una pandemia che ha sconvolto qualunque dimensione dell’esistenza umana, la campagna elettorale americana è passata tutto sommato senza troppi drammi. La piazza, infuocata dalle richieste di giustizia sociale, è stata la protagonista di questi mesi, ma ha informato soltanto marginalmente la dialettica elettorale.
L’assenza di contenuti è stato l’elemento narrativo più notevole del rituale. Donald Trump ha impersonato sé stesso in modo fedele. Ha parlato a vanvera, ha twittato in maiuscolo, ha avuto il Covid, è guarito dal Covid, ha parlato a vanvera e twittato in maiuscolo.
Joe Biden ha proposto di riportare l’America all’era pre Trump, come se il presidente fosse un bug da aggiustare con un semplice aggiornamento del sistema. Ha spiegato al paese la sua visione in un programma composto di quaranta comodi punti, ciascuno descritto con una media di una trentina di pagine scritte in piccolo, per essere certo di non scontentare nessuno e di confondere tutti. Biden ha mostrato di non avere un piano ma di avere «l’inizio di 46 pensieri», come dice Jim Carrey nella sua strepitosa imitazione per il Sarturday Night Live.
Il risultato dello scontro non è stato particolarmente eccitante, per usare un eufemismo, e nella grammatica delle elezioni americane questo segnala un problema. Alexis de Tocqueville nel suo sempiterno La Democrazia in America scrive che la campagna elettorale è il momento in cui «l’intera nazione brilla di una eccitazione febbrile», è uno stato di agitazione, una «crisi nazionale» che trova la sua giusta proporzione soltanto se è un’ubriacatura passeggera. Per l’aristocratico francese in viaggio per l’America nella prima metà dell’Ottocento, le passioni sbrigliate del demos erano l’anticamera della tirannide. Era perciò salutare che fossero confinate nell’ambito della circostanza elettorale, dove la febbre sale e poi si abbassa.
Tocqueville non aveva visto le tumultuose elezioni del 1860, avvenute sul baratro della Guerra civile, non aveva visto gli scontri del 1968, quando è stato eletto Richard Nixon dopo che a sorpresa Lyndon Johnson aveva deciso di non ricandidarsi, e non aveva visto nemmeno quelle inimmaginabili del 2016, quando un fenomeno dell’avanspettacolo trasformato in eroe nativista e populista ha tolto la presidenza dalle mani all’erede designata dell’establishment democratico.
Sono state campagne più febbrili rispetto a quella che si è conclusa questa notte, che è apparsa sottotono non soltanto per le ovvie ragioni sanitarie globali, ma perché è arrivata dopo quattro anni di eccitazione permanente, di agitazione istituzionalizzata, quattro anni di esagerazione emotiva come condizione normale del discorso politico, non come quel picco che è sano raggiungere, nella logica tocquevilliana, soltanto una volta ogni quattro anni.
Nel momento in cui questo giornale va in stampa non si sa se Trump sarà rieletto o se sarà Biden il prossimo inquilino della Casa Bianca. Si sa però che i due sono stati protagonisti di una campagna opaca, dimenticabile, di basso profilo rispetto al registro urlante che il presidente ha imposto negli ultimi quattro anni, uno stato di crisi febbrile che un tempo era l’eccezione e Trump ha fatto di tutto per rendere la regola. Tocqueville aveva capito che l’eccesso delle passioni era una minaccia esistenziale per la democrazia americana.
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