La faccia tosta non basterà a Meloni per affrontare le sfide europee, mentre la sua maggioranza continua a ignorare il basilare principio della separazione dei poteri
Il 2024 s’è aperto in un clima perturbato, e non meteorologicamente. Il 2 Gennaio Giuliano Amato, intervistato da Simonetta Fiori su Repubblica, ricorda che la democrazia non è mai al sicuro dai suoi nemici, pronti a usarne i mezzi per modificarla pian piano, fino a sfigurarla.
In tanti stati essa svanisce senza che l’autocrate di turno ricorra ai brogli; basta far sparire l’informazione indipendente, o minacciare in tanti modi chi s’oppone. «Le democrazie possono finire senza tanto clamore, come è già successo anche di recente in Europa. E questa fine ha sempre un inizio», dice Amato.
Si può anche iniziare criticando l’invadenza delle corti costituzionali che fanno il proprio mestiere; così si erodono, fino a dissanguarle, le istituzioni che distinguono un votificio da una democrazia.
È successo in Polonia e Ungheria, non è detto che avvenga in Italia, ma nessuna barriera lo impedisce; e già la nostra sgangherata destra punzecchia la Corte, accusandola di fare propaganda politica, perché vuol illustrare alla cittadinanza i motivi delle proprie sentenze.
Amato c’intravede, a ragione, «l’ideologia dell’ostilità e del rancore». La premier Giorgia Meloni, stizzita forse per tali parole, due giorni dopo l’intervista ha voluto ricordare di non aver nominato lei Amato presidente della commissione che studia l’impatto dell’Intelligenza artificiale su libri e giornali.
Su Amato, prontamente dimessosi dalla commissione, si possono far prevalere le luci sulle ombre o viceversa, ma che sia una grande figura, riserva della Repubblica, non sfugge all’aggressiva premier, la cui impreparazione è parsa evidente nella cosiddetta conferenza stampa.
In quella sede arrivano poi le sue oblique allusioni: non si farà spaventare, ora è lei, non altri, a dare le carte. Forse ce l’ha con Amato, forse col presidente Mattarella, come ha qui scritto Rino Formica in una lettera al direttore; per l’ex ministro socialista il vero fine del “premierato forte” l’ha svelato il presidente del Senato La Russa. In futuro al presidente sarà inibito esercitare ruoli non previsti in Costituzione.
Egli e Meloni, la cui parte politica restò fuori dalla Costituente, sono interpreti non autorizzati della Carta; ne danno una loro versione apocrifa, e vogliono imporcela. Quale che sia il bersaglio di Meloni, una cosa è chiara; se qualcuno trama contro i poteri costituiti, sta nei paraggi del governo.
L’accoppiata premierato forte-autonomia regionale differenziata seppellirebbe la Repubblica parlamentare, e ferirebbe gravemente l’unità d’Italia; sono bocconi troppo grossi per esser digeriti con le procedure ordinarie cui pensa il governo.
Il nemico interno
Sempre in attacco, come fosse all’opposizione, Meloni addita fantasiosi nemici ma quello vero ce l’ha nel governo. La nostra destra ignora, per sua incurabile, cronica malattia culturale, il basilare principio della separazione dei poteri; la democrazia manda al governo chi vince le elezioni, ma gli impedisce di sterilizzare la minoranza.
Questa deve poter divenire maggioranza, e va pertanto protetta da abusi della maggioranza in carica. A ciò servono leggi e istituzioni atte a evitarne la tirannia, a controllarne e bilanciarne i poteri.
Le forze politiche tendenzialmente autoritarie fanno uso smodato delle istituzioni di garanzia se sono in minoranza, ma una volta al governo le considerano orpelli dannosi all’esercizio del loro potere; se in minoranza, chiedono commissioni parlamentari per indagare abusi del governo, ma una volta al potere scagliano tali commissioni, che controllano, come frecce avvelenate contro le minoranze. Sono lontane dall’idea che la democrazia sia protezione delle minoranze almeno quanto è potere delle maggioranze.
Nel 1923, all’avvio dell’ultimo parlamento eletto sotto il fascismo, mesi dopo il celebre discorso del Duce sul bivacco dei suoi manipoli, ma prima dell’assassinio di Matteotti – vera fine di quella smunta, arrendevole democrazia – il deputato liberal-democratico Alfredo Petrillo disse parole che oggi suonano sinistre, se riferite alla progettata riforma per un “premierato forte” partorita da Maria Elisabetta Alberti Casellati.
Giuseppe Fiori nel libro Il cavaliere dei rosso-mori, vita di Emilio Lussu così ne sintetizza l’intervento: «Prima di Mussolini i governi s’erano presentati alla Camera in veste di giudicabili, sempre. Venivano alquanto dimessi a chiedere un giudizio sugli uomini che componevano il nuovo gabinetto e sul programma che (essi) intendevano attuare. Mussolini no, lui venne da giudice. Non si disponeva a chiedere alla Camera un giudizio, ma a pronunziarlo. La Camera fu condannata, e il giudice si riservò di decidere sulla misura della pena. A seconda della sua condotta, la Camera poteva meritare di vivere due giorni o due anni».
La legge Acerbo, che issò al potere il fascismo, dava la maggioranza assoluta della Camera a chi avesse ottenuto almeno un quarto dei voti.
I temi economici
Sono dunque queste le Camere e la democrazia cui mira la nostra destra? Non conta poi tanto sapere se sia mossa dall’ignoranza, o da nostalgia per quelle sciagurate scelte. Lo spauracchio dei comunisti portò al governo questa destra nel 1994, quando, ammettendoli in coalizione, Berlusconi sdoganò i neofascisti guidati da Gianfranco Fini, del quale gli epigoni ci fan provare struggente nostalgia.
Ed era stata nel primo Dopoguerra la stessa paura dei comunisti, ingigantita ai pavidi occhi degli agrari e degli industriali, a lasciar campo libero alle violenze fasciste; Vittorio Emanuele III rifiutò lo stato d’assedio chiesto dal governo Facta, e morì la prima democrazia italiana.
Come ha qui scritto Formica, alla democrazia serve una stampa libera, all’opposto dei cagnolini da salotto lesti a baciare mani e pantofole. Certo, ha bisogno anche di un’opposizione unita e forte, conscia dei rischi attuali, determinata a prevenirli.
Non l’aiuta un leader del M5s come Giuseppe Conte che, pur di sgranocchiare voti, sfibra pervicace la sinistra, continuamente attaccando la naturale leadership del Pd; le sfuriate antimeloniane nel dibattito alla Camera sul Mes non fanno dimenticare i suoi trascorsi al governo con la Lega per Salvini premier e il voto, allineato al governo, proprio sul Mes.
I danni maggiori il governo Meloni potrebbe però farli in Europa. L’Internazionale sovranista di cui è alfiere è un ossimoro, che vorrebbe farci regredire verso l’Europa “delle Patrie”; la Ue progredirà solo se l’Italia si staccherà nettamente dalla coalizione degli Orbán, dei Morawiecki e della Le Pen, per tacere dei neonazisti tedeschi.
Quali posizioni prenderemo sui grandi nodi che la Ue dovrà affrontare, prima delle elezioni europee di giugno e dopo? Si va dalla prevalenza del diritto Ue su quello nazionale alla necessaria, drastica limitazione del diritto di veto di ogni Stato, alla politica estera e di difesa della Ue, con la messa in comune delle risorse, alla produzione di beni pubblici europei a livello Ue anziché dei singoli Stati.
Il nostro destino è nell’Europa libera, forte, indipendente, avviata verso la famosa “Unione sempre più stretta”, che oggi rischia di svanire all’orizzonte. Nella fase che si sta per aprire, prima e dopo le elezioni di primavera, i temi economici avranno un rilievo sempre maggiore.
Non conforta sapere che li affronteremo con un nocchiero sfiduciato e umiliato dal suo stesso governo, e una comandante del tutto digiuna dei temi economici, troppo lontani dai suoi interessi e dal piccolo mondo mitico della sua formazione. A padroneggiarli, la chutzpah, o faccia tosta, non basta.
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