- Si parla molto di “fine della globalizzazione” o di processo di de-globalizzazione, nel senso che l’inaffidabilità della Russia come partner commerciale e finanziario nei prossimi anni e la lezione della pandemia sull’importanza dell’autosufficienza stanno spingendo le catene di fornitura globali a riorganizzarsi su basi regionali e non più globali.
- Le tensioni sulla filiera agricola e alimentare sono molti, vanno dalla disponibilità di alcune materie prime a quelle dei fertilizzanti, cruciali per la produttività del settore, al costo crescente dei noli e dello stoccaggio.
- La crisi alimentare ed economica che si sta preparando nei paesi in via di sviluppo renderà difficile isolarsi, per noi la globalizzazione è un’opportunità commerciale, per altri l’unica speranza di sopravvivenza e di fuga da carestia e miseria.
A inizio marzo l’Eritrea ha votato contro la risoluzione dell’Onu che condannava l’invasione russa in Ucraina: difficile contestare la scelta del governo di Asmara di rifiutare di allinearsi con l’Occidente, visto che il cento per cento delle importazioni di grano dell’Eritrea arriva o dall’Ucraina o dalla Russia. E se i raccolti ucraini sono incerti a causa del conflitto, l’ultima cosa che il piccolo paese africano (6 milioni di persone) può permettersi è di perdere l’accesso al grano russo.
Anche l’Armenia dipende integralmente dal grano russo, così come la Mongolia, l’Azerbaijan, la Georgia , la Somalia, il Congo e molti altri.
Una situazione drasticamente diversa da quella dell’Italia che, secondo i dati forniti dal ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, dipende solo in minima parte dall’importazione di cereali da Russia e Ucraina: «Nel 2021 gli acquisti dell'Italia dalla Russia sono stati pari a 252 milioni di euro (0,5 per cento del totale dell'import agroalimentare italiano), mentre quelli dall'Ucraina ammontano complessivamente a 641 milioni di euro (1,4 per cento del totale)».
Ma le tensioni sulla filiera agricola e alimentare sono molti, vanno dalla disponibilità di alcune materie prime a quelle dei fertilizzanti, cruciali per la produttività del settore, al costo crescente dei noli e dello stoccaggio: l’aumento dei prezzi dell’energia, conseguenza anch’esso della guerra, sta facendo salire i costi per tutta la filiera e dunque i prezzi finali.
Il prezzo dell’urea, uno dei prodotti base per i fertilizzanti, è passato in un anno da 200 a oltre 800 dollari per tonnellata. A guardare l’andamento dei contratti futures, che permettono di fissare oggi i prezzi di acquisto futuri, gli operatori non si aspettano un normalizzazione delle dinamiche del settore prima della fine dell’anno: il prezzo dei futures tocca il picco per quelli con consegna a settembre 2022, 927,50 dollari a tonnellata, prima di iniziare gradualmente a scendere.
Il Baltic Exchange Dry Index, un indice che misura il costo dei noli marittimi e che spesso è considerato il termometro della globalizzazione, indica che forse il peggio è passato ma la normalità è comunque preoccupante: l’indice è a 2369 punti, ma nei giorni iniziali della guerra era arrivato a 5164, un picco superato in poche occasioni (durante la crisi finanziaria 2008-2009 era a 11.482).
Il cibo come arma di guerra
I think tank americani parlano “weaponization of food”, il cibo che diventa un’arma di guerra, in violazione della Convenzione di Ginevra che impone la distinzione tra obiettivi militari e civili anche durante un conflitto. Come sta dimostrando con i tentativi di manipolare i prezzi del gas e il cambio del rublo, Vladimir Putin è ben consapevole delle conseguenze sui mercati internazionali delle sue decisioni e cerca di usare al massimo questa sua influenza, senza scrupoli per quanto tragiche possano rivelarsi le conseguenze.
Il Food price index della Fao, l’organismo dell’Onu che si occupa di sicurezza alimentare, a febbraio ha raggiunto un nuovo record: 140.7 punti, in aumento del 20,7 per cento rispetto all’anno prima. E ancora non includeva tutti gli effetti della guerra: i prezzi alimentari stavano già salendo prima dell’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio, da allora la situazione è peggiorata.
Il nuovo aumento dei prezzi dipende, in questo caso, non da un aumento di domanda (come è stato per anni con l’evoluzione delle abitudini alimentari e l’ingresso sul mercato di una nuova classe media cinese) ma da una drastica e inevitabile riduzione dell’offerta.
Agli aumenti generati dalla domanda si può ovviare magari cambiando stile di alimentazione, sostituendo un cereale con un altro, ma se invece i campi sono rimasti incolti c’è poco da fare: qualcuno rimarrà senza grano.
Questo shock esterno di cui è ancora difficile misurare la portata arriva a colpire paesi già provati dalla pandemia in un modo che in Occidente non abbiamo davvero percepito.
Il numero di poveri assoluti, cioè di persone che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, ha smesso di diminuire come accadeva da decenni. Nelle proiezioni precedenti alla pandemia, nel 2020 avremmo dovuto avere 635 milioni di poveri assoluti e invece sono stati 732, nel 2021 dovevano essere 613 milioni e sono stati 711.
Si parla molto di “fine della globalizzazione” o di processo di de-globalizzazione, nel senso che l’inaffidabilità della Russia come partner commerciale e finanziario nei prossimi anni e la lezione della pandemia sull’importanza dell’autosufficienza stanno spingendo le catene di fornitura globali a riorganizzarsi su basi regionali e non più globali.
Ma la crisi alimentare ed economica che si sta preparando nei paesi in via di sviluppo renderà difficile isolarsi, per noi la globalizzazione è un’opportunità commerciale, per altri l’unica speranza di sopravvivenza e di fuga da carestia e miseria.
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