I primi sondaggi elettorali della ripresa (Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera) fotografano Fratelli d'Italia in discesa, ma ancora sopra il 30 per cento, e il Pd in risalita, ma ancora sotto il 20. Numeri che misurano le rispettive leader, Giorgia Meloni e Elly Schlein, impegnate in un confronto a distanza ormai quotidiano: i loro punti di forza e, soprattutto, di debolezza.
Per la premier Meloni, oltre al monitoraggio sul partito, c'è l'indice di gradimento che crolla rispetto all'inizio dell'estate, prevale il giudizio negativo verso il governo e la premier che ancora a fine giugno era positivo. La parola chiave è fiducia, come ha scritto un osservatore non ostile, lo storico Giovanni Orsina (La Stampa, 4 settembre).
Meloni non si fida pienamente della sua maggioranza di governo, e la rivalità tra i suoi vice, Salvini e Tajani, è destinata ad aumentare, insieme alla diffidenza. Meloni non si fida di quanto si muove alla sua destra, l'imprevisto generale Vannacci, le copie vendute sul digitale ora diventeranno copie di carta, ottima occasione per girare l'Italia, preparare una candidatura.
Meloni non si fida di Fratelli d'Italia e consegna il partito alla sorella Arianna. Meloni non può non fidarsi dei numeri, i migranti, arrivati a oltre 115mila sbarchi, la gelata della crescita economica in un quadro di possibile recessione europeo. E allora, dato che i soldi sono finiti, afferma di non fidarsi di Paolo Gentiloni, il commissario straniero, l'anti-italiano, a quando l'accusa di disfattismo?
La fine della tregua
Una sfiducia speculare riguarda la segretaria del Pd Schlein. Schlein non si fida di un pezzo importante della vecchia classe dirigente del partito, i capicorrente e i micronotabili non si fidano di lei. Lo scontro è stato latente per tutta “l'estate militante” richiesta da Schlein, in cui molti dirigenti hanno militato contro di lei, ieri è esploso.
Prima il veleno di un esponente della maggioranza Schlein, Nicola Zingaretti («con questa prendiamo il 17 per cento»), lui che da segretario disse di vergognarsi del partito, poi l'uscita di 30 esponenti del Pd genovese e ligure.
Il presidente del Pd Stefano Bonaccini ha chiesto ieri su Domani «un partito più grande ed espansivo, non un partito più piccolo e radicale. Credo che Elly sia la prima a doversi e volersi far carico di questo». La risposta della segretaria è arrivata, brutale: «Chi non si sente a casa in un Pd che si batte per il salario minimo, i diritti, l'ambiente, forse aveva sbagliato indirizzo prima».
È il segno che tregua interna al principale partito dell'opposizione sta per saltare molto prima delle elezioni europee del 2024. Proprio ora che il consenso per Giorgia Meloni comincia a mostrare qualche crepa, su cui sarebbe necessario infilarsi.
Obiettivo rimpasto
Un gruppo di consiglieri che lasciano il Pd eccita gli animi, ma – per restare alla Liguria – il Pd ha preso il 28 per cento e 211mila voti alle elezioni regionali del 2010, il 25 per cento e 138mila voti alle elezioni regionali del 2015, il 24 per cento e 124mila voti nel 2020. A Genova il trend è identico.
Nel frattempo la Liguria e Genova, una regione e una città di tradizione operaia e di sinistra, è passata saldamente in mano al centrodestra di Giovanni Toti e del sindaco Marco Bucci. Gli uscenti sono i consiglieri più votati, in un partito sempre meno votato. Il ceto politico si scalda molto perché se ne vanno gli eletti, non ha mai davvero analizzato perché se ne sono andati gli elettori.
Schlein ha questa catena di fallimenti alle spalle. Quasi tutti i capi comparsi in scena ieri per attaccarla si sono intestati una catena di sconfitte senza fine. Ben venga il chiarimento, se significa spezzare un'unanimità di facciata. Ma Schlein è stata eletta dalle primarie proprio per ricucire un distacco con l'elettorato, non per aumentarlo.
«Rimpastare l'Italia», come si fa con il pane, è lo slogan che ha di recente utilizzato Romano Prodi, vale un manifesto politico, non lo può fare una destra che non si fida neppure di sé stessa. Ma per il Pd è impossibile rimpastare l'Italia se non rimpasta sé stesso. E se lo scisma silenzioso dell'elettorato del centrosinistra non si frena, ma accelera.
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