Il governo evoca un futuro a idrogeno, ma una volta finita la campagna elettorale per le regionali in Puglia una decisione andrà pur presa
- Trent’anni fa l’Ilva statale era la quinta azienda siderurgica del mondo, preceduta dalle giapponesi Nippon Steel e Nkk, dalla francese Usinor-Sacilor (oggi Arcelor Mittal) e dalla British Steel. Produceva 8-9 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, Taranto rappresentava l’80 per cento della produzione del gruppo.
- Vent’anni fa il mondo produceva 850 milioni di tonnellate di acciaio. Oggi viaggiamo verso i due miliardi. L’acciaio se lo producono e se lo consumano Cina, Corea, India e Giappone.
- Non si sa se qualcuno può riportare in auge l’Ilva, ma sicuramente non c’è nessuno al mondo in grado di tenere un’immensa acciaieria aperta per finta.
La follia consiste nel rifare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». Questo aforisma (apocrifo) di Albert Einstein descrive bene l’ottusa ostinazione con cui da otto anni i governi si alternano al capezzale dell’Ilva di Taranto annunciando ogni giorno una soluzione - così come, dopo tre fallimenti in dieci anni, ripetono senza ridere che, anche con gli aerei a terra per la pandemia, loro l’Alitalia la rilanciano davvero. Ma adesso che la campagna elettorale è finita, una decisione andrà pur presa.
Prima però consideriamo la realtà in cui si muovono questi folli. Trent’anni fa l’Ilva statale era la quinta azienda siderurgica del mondo, preceduta dalle giapponesi Nippon Steel e Nkk, dalla francese Usinor-Sacilor (oggi Arcelor Mittal) e dalla British Steel. Con i suoi 8-9 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, Taranto rappresentava l’80 per cento della produzione del gruppo.
Quest’anno produrrà, se va bene, tre milioni di tonnellate e sarà nella classifica mondiale oltre il centesimo posto, per la cronaca conquistato nel 2019 dalla russa Tmk.
Al primo posto c’è Arcelor Mittal, di cui ormai l’Ilva fa parte, padrone indiano e sede legale in Lussemburgo, erede delle ambizioni industriali francesi: nel 2019 ha prodotto 97 milioni di tonnellate, dopo di lei in classifica la prima europea è la tedesca ThyssenKrupp, trentacinquesima con 12 milioni di tonnellate.
Vent’anni fa il mondo produceva 850 milioni di tonnellate di acciaio. Oggi viaggiamo verso i due miliardi. L’acciaio se lo producono e se lo consumano Cina, Corea, India e Giappone. Anche l’Iran ha superato la produzione italiana. A volte il Pil viene meglio senza democrazia.
L’Ilva è già morta
In questo scenario è da disfattisti constatare che l’Ilva è già morta? Oltre metà degli 8.200 lavoratori sono in cassa integrazione, la situazione peggiora e i sindacati promettono battaglia. Eppure i dispensatori di sogni non si riposano mai. Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, è andato a fare un comizio a Bari e ha promesso che «nel Recovery plan ci sarà l’acciaio verde, e ci sarà l’idrogeno».
L’ex ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha replicato: «Gualtieri in vita sua una fabbrica non l’ha mai vista neanche con il binocolo. Acciaio verde non vuol dire nulla. Ma proprio nulla. È un vuoto slogan sulla pelle degli operai».
Carlo Tamburi, capo di Enel Italia, è andato giorni fa alla Camera a parlare del futuro e ha detto: «Daremo energia da idrogeno all’Ilva». Non ha detto quando, perché sarebbe già un sogno alimentare un’acciaieria con l’idrogeno fra dieci anni, ma adesso l’importante è spacciare slogan. Un po’ di ironia aiuterebbe.
Almeno Beppe Grillo, storico apostolo dell’idrogeno, quando racconta che se lo produce in casa e ci fa bollire il suo carciofo biologico ammette ridendo che ci mette due ore e mezzo.
Ma l'attuale classe dirigente, per sentirsi furba, nasconde la verità, chiara dal 26 luglio 2012, quando la magistratura di Taranto arrestò i Riva e sequestrò gli impianti.
Ci sono due sole soluzioni, il resto sono chiacchiere.
La prima: si chiude l’Ilva e gli operai si impiegano nelle bonifiche (costo prevedibile 4-5 miliardi). Alessandro Marescotti, leader di PeaceLink e uno dei più conseguenti esponenti ambientalisti di Taranto, avanza il sospetto che non si voglia chiudere proprio per non dover guardare in faccia l’abisso delle bonifiche. Ma anche tra gli operai il partito del “voglio il mio lavoro in fabbrica” si è dissolto, dopo otto anni di nulla. Oggi stipendiare i dipendenti Ilva perché vadano a cercarsi qualcosa da fare costerebbe meno che tenere aperta l’acciaieria.
Seconda soluzione: si tiene aperta un’azienda decotta dicendo che all’industria meccanica nazionale serve un acciaio di qualità prodotto in casa, cosa anche vera, così non si affronta il dramma occupazionale.
Può avere un senso, ma allora il governo, anziché prenderci per allocchi con la favola dell’idrogeno, dica che si tratterà di coprire perdite da un miliardo all’anno.
Il finale è noto: non si sa se qualcuno può riportare in auge l’Ilva, ma sicuramente non c’è nessuno al mondo in grado di tenere un’immensa acciaieria aperta per finta. Quindi la chiuderanno, mettendoci un po’, perché prima devono trovare il più fesso di tutti a cui dare la colpa.
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