Giovedì scorso Gabriel Attal, il giovanissimo primo ministro nominato da Emmanuel Macron, ha presentato la sua squadra di governo. È una compagine che nei posti chiave si caratterizza per la continuità: alla giustizia, agli interni e all’economia sono confermati i ministri uscenti; tra i ministeri di peso la sola novità è la nomina del fedelissimo di Macron Stéphane Séjourné (anche lui giovanissimo) agli esteri e agli affari europei.
Una nuova campagna pubblicitaria
Sulle ragioni del cambio di primo ministro si è già soffermata su queste pagine Francesca De Benedetti. Con la nomina di Attal, Macron cerca di riproporre la “campagna pubblicitaria” che nel 2017 aveva venduto ai francesi una presidenza giovane ed europeista, baluardo contro la marea di estrema destra.
Il bilancio dei primi sette anni di presidenza ha spazzato via quelle promesse; Macron si è fatto dettare l’agenda dal Rassemblement national di Marine Le Pen inseguendolo su terreni come l’immigrazione o la sicurezza, senza peraltro riuscire a fermarne l’ascesa: al contrario, delle classi medie sempre più in difficoltà non credono più alle promesse del presidente e guardano altrove.
In vista delle elezioni europee, la nomina di Attal al posto dell’usurata Élisabeth Borne (ricordiamo che nel sistema presidenziale francese il primo ministro è di fatto il fusibile del presidente) prova a riproporre la narrazione del 2017, anche se la maggioranza dei commentatori è scettica sul successo dell’operazione.
Complessivamente il governo Attal si sposta a destra, facendo saltare alcune delle figure più critiche dell’operato del presidente proprio sui temi dell’immigrazione e della sicurezza, e dando spazio a personalità dei Repubblicani, il partito dell’ex presidente Nicolas Sarkozy cui Macron spera di prosciugare il bacino elettorale come aveva fatto col partito socialista nel 2017. Questo apre spazi interessanti sul fronte progressista, anche se è tutt’altro che ovvio che la disastrata e litigiosa sinistra francese sarà in grado di occuparli.
Continuità su Europa ed economia (purtroppo)
Le scelte sui principali ministeri economici non lasciano dubbi sulla direzione scelta da Macron, che è di fatto immutata dal 2017. Al ministero del Lavoro, accorpato non senza polemiche con quello della Sanità, già malmenato dai tagli, è stata scelta Catherine Vautrin. Ex fedelissima di Sarkozy, Vautrin avrà il compito di ridurre ulteriormente il perimetro dell’assistenza ai disoccupati (durata e copertura dei sussidi di disoccupazione), fedele al credo macroniano per cui l’occupazione si crea principalmente rendendo meno conveniente la disoccupazione. Tutti i francesi ricordano ancora lo scambio di battute con un disoccupato, nel 2018, quando Macron affermò che gli avrebbe trovato un lavoro semplicemente «attraversando la strada».
La conferma di Bruno Le Maire all’economia va nella stessa direzione. Unico ministro che è sopravvissuto a tutti i rimpasti rimanendo sempre allo stesso posto (è il ministro dell’Economia più longevo della quinta repubblica), Le Maire ha già da tempo chiarito che il suo compito principale deve essere quello di riportare debito e disavanzo entro i limiti europei.
Anche lui proveniente dalle fila della destra, il ministro dell’Economia ha mal sopportato il quoi qu’il en coûte (“costi quel che costi”, la versione francese del whatever it takes) con il quale Macron in questi anni ha cercato senza troppo successo di addomesticare le proteste delle classi medie francesi.
Ora, forte del cambio del clima politico, ha avuto il via libera dal presidente per rimettere in ordine le finanze pubbliche e ha annunciato, già prima della sua riconferma, che per il 2025 e 2026 occorrerà trovare 12 miliardi per rimettere il disavanzo pubblico sui binari.
Ma la bussola per il governo non cambierà. Macron vuole tener fede alla promessa per cui non aumenterà le tasse, soprattutto sulle classi più agiate che secondo lui sono il motore della crescita. Per questo, qualche mese fa, Le Maire ha ignorato le conclusioni di un rapporto, commissionato dal governo a due prestigiosi economisti, che preconizzava un finanziamento della transizione ecologica con imposte mirate e con un aumento del debito.
La riduzione dei disavanzi quindi si farà solo operando dal lato della spesa ed è lecito attendersi che saranno i soliti noti a pagare il conto (le indiscrezioni dicono che si stia considerando la riduzione del numero degli insegnanti e dei rimborsi sulle medicine).
Infine, ma non da ultimo, e nonostante il rimpasto sia stato effettuato proprio con in mente le elezioni europee, ci sarà probabile continuità anche sui temi europei. E pure in questo caso non è una buona notizia. Nel 2017 Macron si fece eleggere come paladino dell’Europa in opposizione alle posizioni di Marine Le Pen, allora esplicitamente euroscettica. Ma dal 2017 la Francia non ha pesato sul dibattito europeo. Al contrario, ha brillato per la sua assenza, di fatto allineandosi alle posizioni tedesche.
Nel 2020 Macron ha, con Angela Merkel, spinto per il Next Generation Eu; ma quando si è trattato di avviare un dibattito sulla creazione di una capacità di bilancio permanente, la Francia ha rapidamente abbandonato l’idea di fronte all’ostilità tedesca (i lettori forse ricorderanno la proposta nell’aprile 2022 di un Next Generation Eu per la difesa, durata lo spazio di un mattino).
Allo stesso modo la Francia, che sembrava privilegiare una riforma del Patto di stabilità che desse più spazio all’investimento pubblico, è praticamente sparita dalla scena mentre la pur timida proposta di riforma della Commissione veniva demolita dalle bordate del falco tedesco Christian Lindner, per infine riapparire nell’ultimo rettilineo e approvare un “compromesso” che conformemente ai desideri del governo di Berlino è di fatto una versione emendata della vecchia regola.
Le Pen si frega le mani
È interessante notare che, contrariamente a quanto si legge, sui temi economici Macron non si è “spostato a destra”. La riduzione delle imposte per i più ricchi, le liberalizzazioni, la compressione dello stato sociale e la narrazione dell’assistenzialismo come male francese sono tutte posizioni che ha sempre difeso, anche quando era ministro del socialista François Hollande (che a sua volta aveva fatto delle politiche per l’offerta il fulcro della sua risposta alla crisi dell’euro).
Insomma, Attal, come i primi ministri che lo hanno preceduto, rappresenta un tentativo di rebranding di un prodotto che rimane lo stesso dal 2017. È difficile immaginare che questo aiuti a fermare l’ondata Le Pen. Man mano che ci si avvicina alle presidenziali del 2027, Macron si conferma sempre di più, anche con la scelta di un governo di fedelissimi improntato alla continuità, il presidente del “dopo di me il diluvio”.
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