- La guerra in Ucraina avvelena il discorso pubblico in Italia, che si mostra più concentrato a soddisfare il piacere gladiatorio dei suoi organizzatori e protagonisti che a comprendere quel che sta avvenendo.
- Il caso che ha coinvolto Alessandro Orsini è un esempio penoso di un discorso pubblico che stenta a tenere insieme il pluralismo e la parzialità.
- Se non vogliamo che quella combattuta sul campo diventi una guerra totale, dovremmo noi tutti fare uno sforzo per evitare che la nostra mente sia disposta verso soluzioni totali. Ciò richiede una dose di auto-controllo e di civismo non piccola. Ma non abbiamo altra strada.
La guerra in Ucraina avvelena il discorso pubblico in Italia, che si mostra più concentrato a soddisfare il piacere gladiatorio dei suoi organizzatori e protagonisti che a comprendere quel che sta avvenendo e ad orientare l’opinione politica su quel che il nostro paese dovrebbe fare, insieme all’Europa, per favorire l’uscita immediata dalla guerra con una pace giusta e duratura.
Ci troviamo in un momento delicatissimo per i destini degli ucraini, dei russi e di noi tutti. Una ragione ulteriore per tenere aperta la sfera pubblica di discussione evitando di aggiungere alla guerra guerreggiata quella delle tifoserie nei talk show and sui socials.
D’altro canto, benché il tifo sia fuori luogo, non siamo come giudici in un tribunale dove un giusto verdetto richiede un giudizio imparziale e distaccato. Il tribunale dell’opinione è parte in causa nella decisione perché orienta gli attori verso decisioni dalle quali tutti saremo affetti.
Mai come in questo momento, i politici decidono della nostra vita.
Per questo, nessuno è estraneo e le competenze sono di tutti noi, in quanto cittadini, perchè è di guerra e di pace, di morte e di vita, che si decide.
La pluralità delle interpretazioni è dunque una ricchezza proprio perchè non c’è “la” soluzione perfetta a portata di mano. Tuttavia, sarebbe naïve e irragionevole pensare che la pluralità sia fine a sé stessa; in politica, la discussione è condotta al fine di prendere una decisione. La quale è come un imbuto che restringe gradualmente il bacino delle opinioni per convogliare la volontà verso una di esse.
In questo passaggio dal parlare all’agire – dal complesso al semplice-- si manifesta la tempra del discorso pubblico, il grado di tolleranza o di faziosità.
Il caso Orsini
La sfera dell’opinione ha il privilegio di non dover decidere. Chi la anima dovrebbe per tanto essere disposto ad offrire il proprio contributo senza assumere di avere in tasca la verità già pronta. Dovremmo far nostro il motto di Gaetano Salvemini: «Non possiamo essere imparziali, ma solo essere intellettualmente onesti. L'imparzialità è un sogno, l'onestà un dovere».
Ora, le polemiche sulle partecipazioni televisive del professor Alessandro Orsini, accusato di essere filo putiniano, è un esempio penoso di un discorso pubblico che stenta a tenere insieme il pluralismo e la parzialità; che non riesce con onestà a riconoscere che proprio perché ricerchiamo, ciascuno con le proprie forze, una buona soluzione ad un problema che riguarda tutti, dovremmo se non altro essere umili abbastanza da accettare di dare e ricevere ragioni, ed essere disposti a cambiare idea se necessario.
Questo vale per tutti: per chi è a favore dell’invio di aiuti militari a sostegno della resistenza del popolo ucraino (che non equivale necessariamente a inviare le armi che il presidente ucraino chiede) e per chi crede, invece, che per evitare il rischio di una guerra atomica l’Ucraina debba sacrificare parti del proprio territorio. Il trade-off tra la pace e il sacrificio di una nazione è evidente.
Si tratta di due strade che hanno, entrambe, buone ragioni e però anche controindicazioni.
E’ proprio questa irriducibile complessità che ci dovrebbe orientare ad una deliberazione onesta e non gladiatoria.
Se non vogliamo che quella combattuta sul campo diventi una guerra totale, dovremmo noi tutti fare uno sforzo per evitare che la nostra mente sia disposta verso soluzioni totali. Ciò richiede una dose di auto-controllo e di civismo non piccola. Ma non abbiamo altra strada.
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