- A perdere le elezioni, con un risultato sotto il 9 per cento, è stata quindi in primo luogo la Lega di Giorgetti, non solo quella di Salvini.
- Gli unici candidati attualmente proponibili per una successione sono proprio quelli, “governatori” inclusi, che spingendo sullo snaturamento del profilo che la Lega si era data nel momento della fuoriuscita dai confini del Nord, hanno sperperato un patrimonio di consensi probabilmente di qui in avanti irraggiungibile.
- Il destino di una Lega “depopulistizzata” come aveva già dimostrato l’interregno di Roberto Maroni, è la marginalità.
C’era una volta la Lega di Salvini. Che aveva messo da parte, o perlomeno fra parentesi, la a lungo agognata indipendenza della Padania, assegnato a Umberto Bossi il ruolo di onorato e inoffensivo patriarca e scelto di infrangere il muro che la separava dal resto della penisola, adottando lo slogan «Prima gli italiani», calco di quello che già aveva fatto il successo di analoghe formazioni nazional-populiste in parecchi paesi d’Europa.
Era un partito che aveva deciso di partire alla conquista anche delle un tempo disprezzate terre e popolazioni del Sud, che cavalcava i malesseri e le proteste diffusi prevalentemente proprio nel Meridione e che lo faceva con una massiccia dose di demagogia ma, soprattutto, con tematiche e proposte di ampio impatto sui ceti che fino a qualche decennio fa la sinistra memore di Antonio Gramsci definiva subalterni.
Dopo le origini
Con quella impostazione anti-establishment, alimentata da un conclamato disprezzo per i politici di professione, gli intellettuali e i media progressisti, dall’allarme per le dimensioni raggiunte dalla immigrazione e dai continui richiami a misure più severe per contrastare la microcriminalità e garantire la sicurezza dei comuni cittadini – insomma, con la tipica agenda che caratterizza ormai da decenni i leader e i movimenti populisti - il movimento che per anni si era baloccato con il sole delle Alpi, le camicie verdi, la rivendicazione dell’uso del dialetto e le pittoresche sagre di Pontida punteggiate da armature, elmi vichinghi e berretti dell’esercito nordista della guerra di secessione nordamericana, aveva inanellato una serie di risultati sorprendenti.
L’epopea della prima Lega, quella che aveva anticipato all’inizio degli anni Novanta il tracollo del vecchio sistema di partito, era stata surclassata e quasi dimenticata.
Al Nord si era ritornati alle cifre che avevano fatto sperare a Bossi di poter infrangere stabilmente la dinamica bipolare, ma soprattutto al Sud si era verificata un’espansione impensabile.
Quella Lega, quindi, aveva impresso al quadro politico nazionale più di uno scossone significativo.
Da un lato, con il risultato alle politiche del 2018 aveva drasticamente ridimensionato il ruolo di Forza Italia nella coalizione anti-sinistra, sorpassandola di oltre tre punti percentuali per poi ridurne ulteriormente il peso (8,8 contro 34,3, con Fratelli d’Italia salita al 6,4) l’anno successivo alle europee.
Dall’altro, aveva dimostrato di poter contendere e poi strappare ai Cinque Stelle il primato nella vasta fascia di elettorato di sentimenti populisti: il travaso di quasi metà dei suffragi ottenuti dal M5S nel serbatoio leghista ne era la prova.
Da quella posizione di forza, Salvini aveva trovato il coraggio di puntare sulla politica delle mani libere, sottoscrivendo l’accordo giallo-verde sfociato nella nascita del Conte I.
Una mossa che, sul momento, oltre a suscitare le ire di Berlusconi, era stata giudicata da molti osservatori come un passo troppo azzardato, che gli elettori del Carroccio, da quasi tutti dati per antropologicamente “di destra”, non avrebbero accettato.
E invece, quella scelta aveva funzionato, proiettando gli ex nostalgici di Alberto da Giussano verso un trionfo nelle urne e accordando all’esecutivo di cui erano parte (soprattutto mediaticamente) rilevante il consenso, stando ai sondaggi dell’epoca, dei due terzi degli italiani.
La crisi del Papeete
Venne poi però l’agosto del 2019. E, a distanza di neanche quattro mesi dal grande successo delle europee, il fatidico proclama del Papeete, che nella sorpresa generale affossò il governo in carica.
Addebitato dall’opinione pubblica a Salvini, di cui certamente attestava l’insipienza strategica, quel voltafaccia fu invece preparato, voluto ed imposto – per quali canali di persuasione e/o pressione, non è mai stato dato sapere – dal suo ipotetico vice, Giancarlo Giorgetti.
Che, collocato nel ruolo cruciale di sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, da mesi andava distillando dichiarazioni e interviste in cui esprimeva insofferenza per i rapporti con i provvisori alleati e sollevava questioni destinate ad attizzare ulteriori dissidi tra le due componenti politiche dell’esecutivo.
Che Giorgetti agisse su commissione più che per convinzione, cioè per tutelare gli interessi di quei gruppi economici e finanziari del Nord con cui aveva notoriamente familiarità, è un’ipotesi che da subito venne avanzata in sede giornalistica.
Quel che è sicuro è che, facendo sponda con qualche presidente di regione del Carroccio, la sua azione riuscì a spingere il segretario della Lega a rompere i patti.
Probabilmente nella speranza, che la presenza di un presidente della Repubblica come Sergio Mattarella rendeva in partenza illusoria, di andare ad elezioni anticipate e sbaragliare il campo.
Fallita la manovra, la linea di Giorgetti iniziò immediatamente a dare i suoi frutti, contribuendo a far nascere il governo giallorosso e costringendo il partito ad un’opposizione in cui – ecco il vero e primario obiettivo del politico varesino – era necessario ristabilire i migliori rapporti possibili con Forza Italia e altri frammenti moderati.
Svanito le scenario di nuove elezioni, i sondaggi iniziarono a segnare una flessione del consenso leghista, segno evidente della perplessità di molti suoi elettori verso l’abbandono del governo.
Mese dopo mese, le rilevazioni diventavano sempre meno favorevoli, anche per gli ondeggiamenti del leader durante l’aggravarsi della crisi pandemica.
E mentre Salvini ci metteva la faccia – e in parte la perdeva con le indecisioni e contraddizioni –, Giorgetti continuava a tessere la sua trama.
Che mirava a fare della Lega un partito “rispettabile”, moderato, ragionevole, maturo, educato al bon ton istituzionale, più marcatamente nordista e soprattutto lontano dal populismo spesso sbracato e demagogico che gli aveva fatto incassare molti voti ma anche procurato irritazione negli ambienti economici e finanziari.
L’effetto Draghi
La caduta del Conte II e l’avvento al timone di Mario Draghi, con cui l’ex sottosegretario era già in rapporti amichevoli, hanno fornito l’occasione perfetta a Giorgetti per coronare quel suo progetto, consentendogli anche di raggiungere il rango e le funzioni di ministro dello sviluppo economico, le più adatte per coltivare ed accrescere la sua rete di relazioni.
E mentre Giorgetti ascendeva, la Lega scivolava sempre più precipitosamente.
Costretta dall’agenda governativa a digerire politiche che aveva sempre avversato, imprigionata nel ruolo di pilastro di quell’establishment che da decenni dichiarava di voler demolire, a fianco del detestato e vituperato Partito democratico e dei ripudiati pentastellati, e per giunta sotto la guida praticamente egemonica di un banchiere, simbolo di quel fronte globalista ed euroentusiasta contro cui aveva scagliato innumerevoli dardi, era inevitabile che la sua conversione alla rispettabilità sconcertasse, per non dir di peggio, un gran numero dei suoi elettori.
Per i quali, l’estrema manifestazione di lealtà a Draghi anche nel momento in cui la non-fiducia del M5s ne rendeva scontata la caduta è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Soprattutto se tutti questi atteggiamenti venivano posti a confronto con la costante opposizione di Fratelli d’Italia.
A perdere le elezioni, con un risultato sotto il 9 per cento, è stata quindi in primo luogo la Lega di Giorgetti, non solo quella di Salvini.
E se il partito, a seguito del dimezzamento dei voti e della ancor più netta riduzione dei parlamentari, dovesse rimettere in discussione vertici, strategia e mosse tattiche degli ultimi tre anni, sarebbe logico attendersi che sul banco degli imputati finisse, prima ancora di chi quelle scelte e posizioni le ha incarnate ed interpretate, chi gliele ha suggeriti e/o imposte.
Da questo punto di vista ipotizzare uno scenario di dopo-Salvini è altamente problematico.
Perché gli unici candidati attualmente proponibili per una successione sono proprio quelli, “governatori” inclusi, che spingendo sullo snaturamento del profilo che la Lega si era data nel momento della fuoriuscita dai confini del Nord, hanno sperperato un patrimonio di consensi probabilmente di qui in avanti irraggiungibile.
Se a uno di loro spettasse di far transitare al Carroccio il guado in cui si è impantanato, profetizzarne l’insuccesso sarebbe sin troppo facile. Il destino di una Lega “depopulistizzata” come aveva già dimostrato l’interregno di Roberto Maroni, è la marginalità.
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