Il 6 Febbraio la Camera ha approvato il testo definitivo del disegno di legge per lo sviluppo dei capitali. Quel titolo riflette la sottostante confusione d’idee. La legge non può “sviluppare i capitali”, bensì i mercati cui le imprese si rivolgono per finanziare lo sviluppo. Spesso la quotazione ha avuto altri scopi e altri esiti, ma stiamo alla sostanza.
La legge vuol vincere la riluttanza – non sempre dovuta a nobili ragioni – delle nostre imprese verso i mercati, ma ignora il vero, grande ostacolo alla quotazione di quelle medie (per le piccole la quotazione raramente ha successo): il problema non è la riluttanza delle aziende, bensì quella degli investitori a comprarne i titoli.
Per incentivare la quotazione la nuova norma riduce obblighi e oneri a questa connessi; soprattutto, consente di modificare lo statuto per conferire dieci voti per ogni singola azione detenuta senza interruzioni per dieci anni. Il miracolo finanziario della moltiplicazione dei voti, più che premiare gli azionisti di lungo periodo, consente a chi ha il controllo della società di mantenerlo anche se il numero delle sue azioni scema vieppiù.
Così si vorrebbe limitare l’esodo delle nostre imprese, sulle orme della casa sabauda degli Elkann (2014) verso Amsterdam. Si potrà offrire anche sul mercato domestico l’ottimo allucinogeno, moltiplicatore dell’esperienza psicosensoriale, colà disponibile. I consumatori preferiscono però i prodotti originali a incerti surrogati: la merce olandese non interessa infatti le imprese locali, ma gli stranieri, e tra loro tanti italiani.
La diffusione di tali norme è incompatibile col capitalismo democratico che ci ha dato lo sviluppo postbellico, basato sull’assunto “Chi più rischia più abbia potere di gestione”. A quel principio – un’azione, un voto – resta attaccato il Regno Unito. La legge invece deifica e ossifica l’imprenditore di controllo, che tale resta pur se il suo rischio finanziario scema. Questo mucchio di voti in più protegge i controllanti da operazioni ostili, ma imbolsisce “l’animale capitalismo”, alimenta ancora la disuguaglianza, può sfigurare il sistema. Si delinea un conflitto non fra capitale e lavoro (il primo ha già vinto a mani basse), ma fra due opposti capitalismi, che ci porterebbe lontano.
La legge consente di sostituire all’assemblea degli azionisti una breve riunione dal copione già scritto; ci sarà un “rappresentante delegato” che voterà conforme alle istruzioni ricevute dagli azionisti, senza confronti, con nuovi paletti alla presentazione di proposte di delibera o domande. E i soci di controllo non dovranno più comunicare al mercato gli acquisti e vendite sul titolo. Saranno contenti loro, non gli investitori che da sempre scrutano tali dati per trarne elementi di decisione. L’esperienza dimostra che il grande ostacolo alla quotazione d’una media impresa italiana è la scarsezza di investitori professionali, dovuta all’illiquidità di quei titoli; costruire una posizione richiede molto tempo, essa può divenire una prigione per chi voglia o debba smontarla in fretta. Non saranno certo norme simili ad attrarre chi oggi resta lontano.
La legge contiene anche una delega al governo per riformare il Testo unico della finanza redatto nel 1998 da una commissione presieduta da Mario Draghi allora direttore generale del Tesoro. Non si arriverà a quei livelli, solo si spera che non ci lavorino dei Giustiniani da strapazzo, bensì professionisti con adeguata competenza e soprattutto schiena dritta, per sfuggire alle lusinghe degli interessi finanziari.
Su tale punto però la legge apre squarci inquietanti. Al ddl originario del Mef, è stato aggiunto a forza un corpo estraneo, l’art. 12 “Lista del consiglio di amministrazione nelle società per azioni quotate”. La norma illogica, incoerente, scritta male, vuol regolare la prassi, frequente in società ad azionariato diffuso, della “lista del cda” di candidati al nuovo consiglio, duramente avversata da un importante azionista di Mediobanca e Generali, Francesco G. Caltagirone.
In audizione al Senato egli ha detto di vedere nella lista del cda pericoli di autocrazia; fu sconfitto due anni fa nella battaglia sul cda Generali per essersi «trovato contro i manager della compagnia», nessun privato può opporsi ai mezzi “schiaccianti” di Generali. Questo speciale privato, definito “L’ottavo re di Roma”, s’è rifatto avendo la forza di indurre il parlamento a varare una norma ad personam, da lui chiaramente sollecitata. Solo Silvio Berlusconi c’era riuscito, e il precedente non è confortante.
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