Una vera riforma costituzionale è necessaria, ma la proposta del referendum è un pasticcio populista che aumenta la distanza fra le istituzioni e le persone e impedisce che il parlamento sia “una voce di proposta, ma eventualmente anche di protesta”, come diceva Nilde Iotti
- L’essenza della democrazia risiede nel legame fra le istituzioni e le persone. Niente di più distante da quanto produrrà la riforma costituzionale che sarà votata il 20 e 21 settembre, qualora dovesse essere approvata.
- Il taglio dei parlamentari aumenterà la disuguaglianze e indurrà ulteriore sfiducia nelle istituzioni. Nel più classico dei pasticci all’italiana, si conta sul fatto che il sistema reagirà allo shock in maniera automatica. Noi non siamo disposti a crederci.
- Il quesito referendario mina la nostra democrazia parlamentare, mutando il rapporto fra rappresentanti e rappresentati e svuotando di significato il mandato degli eletti per seguire i peggiori istinti populisti.
«Il sistema nuovo, verso il quale bisogna necessariamente andare, dovrà far sentire a ciascuno di contare, di essere rappresentato, di avere nel parlamento una voce di proposta, ma eventualmente anche di protesta».
Quanto suonano necessarie e contemporanee queste parole? Eppure a pronunciarle non sono le nostre o i nostri parlamentari di oggi, ma Nilde Iotti, madre costituente, alla Camera il 1° dicembre del 1992 nel suo noto discorso La tecnica della libertà. La stessa Nilde Iotti che ormai troppo spesso viene strumentalizzata da alcune forze politiche per legittimare le motivazioni del Sì al referendum del 20 e 21 Settembre.
Sembra chiaro che per Iotti l’essenza della democrazia risieda nel legame tra le istituzioni e le persone. Niente di più distante da quanto produrrà la riforma costituzionale al voto, se venisse approvata. Ci troveremo davanti a un quesito referendario che mina terribilmente la nostra democrazia parlamentare andando a incrinare l’ossatura del nostro sistema democratico: il pluralismo e la rappresentatività.
Infatti, con la riforma del numero dei parlamentari così proposta, muterà fortemente il rapporto tra rappresentanti e rappresentati, che solo alla Camera passerà da una media di un deputato ogni 96mila abitanti a un deputato ogni 150mila.
La distorsione si avrà anche sulla dimensione del collegi che aumenterà notevolmente: quelli uninominali al Senato avranno una media superiore agli 800mila elettori e alla camera oltre 400mila. La riduzione, inoltre, non sarà equa in tutte le regioni.
Un esempio su tutti: al Senato la Basilicata vedrà una riduzione del 57 per cento dei seggi (da 7 senatori a 3) mentre quella del Trentino Alto Adige sarà del 14,3 per cento (da 7 senatori a 6).
Tutto questo disegno svuoterà così di significato il mandato parlamentare rappresentativo, verrà meno il principio secondo il quale un deputato, oltre a rappresentare tutta la nazione, è espressione del proprio territorio.
Vi saranno nuovi e significativi vuoti di rappresentanza nelle aree periferiche e nelle aree interne e un ulteriore distacco tra la politica e le persone: gli eletti si concentreranno, ancora di più, nei grandi centri abitati o nelle aree ad alta densità di popolazione.
Riducendo però la rappresentanza, anche nei grandi centri si genereranno forti meccanismi di disuguaglianza, di riconoscimento, di rappresentanza stessa, di servizi, di accesso ai fondi, di giustizia sociale ed economica, quindi profonda sfiducia nelle istituzioni.
Ci viene detto che saranno i consigli regionali a colmare questo gap, peccato che nessuno glielo abbia detto, né sono stati previsti meccanismi di compensazione in grado di fornire i giusti strumenti di consultazione locale. Insomma, nel più classico dei pasticci all'italiana, si conta sul fatto che il sistema reagirà allo shock in maniera automatica. Noi non siamo disposti a crederci.
A chi dice che non si può ridurre il tema della rappresentatività ai numeri rispondiamo che sappiamo bene non essere una mera questione numerica ma, come osserva Nadia Urbinati, “è anche una questione numerica: se non lo fosse perché non proporre un solo rappresentante per tutti? I numeri e le quantità sono importanti nella democrazia”. La Finlandia, che nessuno porta a esempio, ha un parlamentare ogni 30mila elettori, un rapporto che garantisce più trasparenza e soprattutto accessibilità.
La voce di protesta
Non fraintendeci, sappiamo che una riforma costituzionale è necessaria. Ma proprio per questo ci sembra assurdo che un intervento così fondamentale venga delegato alle approssimazioni più tipiche del populismo, che considera il parlamento un costo prima ancora che il luogo centrale di rappresentanza, discussione e guida per la politica nazionale.
Che fine farà quella che Nilde Iotti chiamava “voce di protesta” se le soglie di sbarramento implicite raggiungeranno il 20 per cento? Come si fa a mettersi nelle mani di chi sostiene che meno parlamentari significa meno leggi? Se il numero di commissioni, quattordici, rimarrà immutato e il numero di parlamentari si ridurrà di un terzo, come potrà essere garantita la qualità dei lavori? E non basteranno semplici regolamenti a metterci la famosa pezza, serviranno altre riforme costituzionali, con tempi impossibili da prevedere.
Già ci immaginiamo quegli storici che tra qualche decennio racconteranno di quella volta che un referendum anti casta produsse casta. Di quella volta che grazie al populismo i partiti politici divennero un gioco per pochi, la casta divenne più casta, l'elite e i privilegi si moltiplicarono.
Avere a cuore il paese, la sua complessità e i suoi mutamenti significa comprendere più a fondo le motivazioni del distacco tra la società e la politica ma soprattutto - dopo aver ottenuto delega di mandato - cercare soluzioni reali per ricucire questa distanza siderale.
E, così, prima di pensare a una riforma delle istituzioni sarebbe stato necessario - e lo è ancora - pensare a un profondo rinnovamento della politica, a cominciare dai partiti. Partiti che molto spesso producono classe dirigente non per meriti o per selezione dei percorsi di vita, ma attingendo da chi già fa parte della classe dirigente. Un declino iniziato con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti che ha reso la politica non per tutti e finanziata da interessi esterni.
E’ evidente che questo problema con il referendum si inasprirà sempre più perché ormai la frattura - creata dalle ingiustizie - corre lungo diverse faglie: dall’estrazione etnica a quella geografica, a quella anagrafica a quella di classe sociale. E in pochi potranno permettersi una campagna elettorale nelle vastissime circoscrizioni, i gruppi dirigenti diventeranno sempre più aziendalizzati e di pochi (se non sempre degli stessi), il parlamento un luogo di tecnici lobbisti che paternalisticamente ci diranno cosa è giusto e cosa è sbagliato.
Ci sarebbe bisogno di un cambiamento vero: nei metodi e nelle prassi. Scegliendo, per esempio, di creare cultura politica, senso civico, massa critica, di fare formazione: di dare gli strumenti alle persone come forma di giustizia sociale, invece di continuare a chiudere le porte.
Perché fuori da quelle stanze, in realtà, le persone sono assetate di giustizia ed esprimono bisogni reali di cambiamento, non solo un generico desiderio di partecipazione fine a sé stessa: vedono che il mondo sta cambiando e sentono l’urgenza di dover contribuire a migliorarlo.
Bisogni ai quali gli eletti - se dovesse passare questa riforma - non saranno più in grado di rispondere, per una semplice ragione: non ne conosceranno l’origine e talvolta l’esistenza. Come diceva Sandro Pertini: “Gli uomini per essere liberi è necessario prima di tutto che siano liberati dall’incubo del bisogno”. E su questo referendum grava il peso della nostra libertà.
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