Il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, che ha deciso di non incontrare le principali associazioni ambientaliste interrompendo così una lunga consuetudine di relazioni, ha annunciato le consultazioni per il nuovo Piano nazionale energia e clima (Pniec).

Era ora, bisognerebbe dire: l’attuale Pniec è invecchiato e da tempo, dati i nuovi obiettivi europei fissati col pacchetto “Fit for 55” – riduzione delle emissioni di CO2 del 55 per cento e non del 40 – e tanto più col pacchetto RePowerEU con cui si vuole spingere sulle rinnovabili per accelerare la riduzione dei consumi di gas proprio nel settore in cui è più facile: la produzione di elettricità.

La strategia di decarbonizzazione, com’è noto, passa per una progressiva elettrificazione degli usi oggi coperti dalle fossili – come i trasporti e il riscaldamento domestico – e, per centrare l’obiettivo, la produzione di elettricità deve essere spinta con quote crescenti di rinnovabili che devono diventare il centro del sistema energetico.

Obiettivi

Se la consultazione si chiuderà nel giugno del 2024, il ministro ha però concluso: andremo per due terzi con le rinnovabili e un terzo a gas. Questa affermazione va certamente intesa come obiettivo del settore elettrico e delinea, di fatto, una quota di gas fossile maggiore di quello che ci dovrebbe essere per centrare gli obiettivi europei.

Per il vecchio Pniec la quota di rinnovabili prevista al 2030 era fissata al 55 per cento. In questi anni però la disponibilità dell’industria elettrica a investire in rinnovabili è andata crescendo.

Lo scenario presentato l’anno scorso dalla confindustriale Elettricità Futura identifica come fattibile un obiettivo di rinnovabili elettriche dell’84 per cento al 2030. Così il ministro, non solo anticipa oggi le conclusioni della consultazione che si dovrebbe chiudere tra più di un anno, ma lo fa a difesa di una quota di gas fossile doppia rispetto a quello che si potrebbe fare secondo l’industria (e anche secondo lo scenario di Greenpeace).

Le semplificazioni burocratiche per le rinnovabili sono in parte arrivate per quanto riguarda il ministero. La “resistenza fossile” della maggioranza di governo pare essersi spostata sulle regioni: alcuni presidenti di centrodestra (Lazio, Sicilia) hanno già annunciato “moratorie” sulle rinnovabili che, al di là della loro base giuridica, certo non lasciano ben sperare.

E veniamo al capitolo nucleare. Il ministro ci ricorda che non si tratta più della tecnologia sulla quale abbiamo fatto il referendum nel 2011. Vale la pena di ricordare ancora che nel 2009 il presidente Silvio Berlusconi aveva firmato un “memorandum” con il presidente Nicolas Sarkozy per costruire in Italia quattro reattori EPR. L’unico reattore di questo tipo, in costruzione in Francia a Flamanville dal 2007, è tuttora in costruzione a costi esorbitanti (oltre 19 miliardi di euro contro i 3,5 iniziali).

A quale altra tecnologia si riferisce il ministro? Ai piccoli reattori modulari oggetto dell’accordo tra Ansaldo nucleare e EDF? I cosiddetti SMR (Small Nuclear Reactors) sono un’idea degli anni ’80 mai industrializzata finora e i tentativi in corso, come quelli della canadese NuScale, non portano a costi inferiori. L’idea che al posto di un grande reattore se ne debbano fare cinque o sei per produrre la stessa energia appare bizzarra. La vera spinta verso questa tecnologia è in realtà militare: mantenere un presidio industriale per garantire la propulsione nucleare di sommergibili e portaerei, come mostrano le analisi condotte dai professori Stirling e Johnstone dell’Università del Sussex sul caso britannico.

Forse il ministro si riferisce alla fusione nucleare su cui investe Eni? Su queste pagine si è già mostrato come la pretesa dell’ad Claudio Descalzi che la fusione nucleare possa essere già sul mercato tra otto anni e che il combustibile necessario sia abbondante e “si estrae dal mare” è una affermazione totalmente infondata. Questa dunque la linea fossile del governo: rinviare il più possibile la transizione energetica e difendere il mercato del gas fossile. Una politica miope e di retroguardia.

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