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Nell’estate calda del lavoro, di fronte all’annunciata “macelleria sociale” causata dallo sblocco dei licenziamenti, le forze della sinistra parlamentare si stanno giocando una buona dose di credibilità su un’altra partita: l’approvazione della legge contro i crimini d’odio omofobici e transfobici.
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Al di là delle note di scherno, la questione non è nuova. Richard Rorty la poneva già nel 1997. Il problema è che, nel contempo, le diseguaglianze e l’insicurezza economica sono costantemente aumentate.
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Una sinistra all’altezza del nostro tempo può contrapporre in modo schematico le istanze delle donne o delle minoranze sessuali o razziali o etniche, a quelle dei lavoratori?
Nell’estate calda del lavoro, di fronte all’annunciata “macelleria sociale” causata dallo sblocco dei licenziamenti, le forze della sinistra parlamentare si stanno giocando una buona dose di credibilità su un’altra partita: l’approvazione della legge contro i crimini d’odio omofobici e transfobici.
Secondo alcuni critici, si tratta di un segno di estrema debolezza: incapace di trovare soluzioni alle ricadute locali del capitalismo globale, la sinistra sventola la bandiera dei diritti civili. Su questo terreno la destra attacca: «una volta la sinistra si occupava di lavoro, di operai», ha detto Salvini qualche giorno fa, adesso «Letta si occupa di Zan, di ius soli e della nazionale che si deve inginocchiare». Insomma, «siamo passati da Togliatti a Fedez».
Al di là delle note di scherno, la questione non è nuova. Richard Rorty la poneva già nel 1997. Secondo il filosofo, la sinistra, dopo aver trattato a lungo le ingiustizie razziali o di genere come un sottoprodotto di quelle redistributive, negli ultimi decenni del secolo scorso si è invece dedicata soprattutto a risollevare la condizione di persone «umiliate per ragioni diverse dallo status economico», e cioè per ragioni di razza, sesso, religione, orientamento sessuale. Il problema è che, nel contempo, le diseguaglianze e l’insicurezza economica sono costantemente aumentate. Il risultato è stato l’abbandono delle classi meno avvantaggiate.
È questo il problema con cui ancora oggi ci confrontiamo. La risposta, però, non può essere l’abbandono della partita dei diritti civili.
Come ha scritto Gianfranco Pasquino su questo giornale, mettere in conflitto diverse classi di diritti significa arrendersi all’idea che non possano essere perseguite e conseguite contemporaneamente. La sfida, invece, è precisamente questa.
Ma c’è di più. Dovremmo chiederci: una sinistra all’altezza del nostro tempo può contrapporre in modo schematico le istanze delle donne o delle minoranze sessuali o razziali o etniche, a quelle dei lavoratori? Può ignorare il fatto che la classe lavoratrice è largamente composta proprio da donne, e da lavoratori e lavoratrici migranti e appartenenti a minoranze razziali? E che le persone omosessuali o trans subiscono discriminazioni che hanno ricadute gravi sul piano sociale?
Chi critica le battaglie per i diritti di migranti o minoranze sessuali come un cedimento alle istanze dei “pochi”, e un abbandono di quelle dei “molti”, mostra in realtà di aderire a una visione vecchia, o parziale, delle classi lavoratrici. Una visione del tutto analoga a quella che propone la destra quando rivendica una sorta di primato politico del lavoratore maschio, nativo, della classe media, come vera spina dorsale della nazione.
«È evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra», cantava Giorgio Gaber. Oggi, chi vuole ragionare sul serio deve vedere con chiarezza il nodo politico che lega le battaglie contro le diseguaglianze economiche a quelle contro le discriminazioni. È da qui che passa la frontiera tra progressisti e conservatori.
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