Era il gennaio del 2017 quando il presidente cinese Xi Jinping perndeva per la prima volta preso parte al Forum Economico Mondiale (Wef) di Davos.

Si era trattato di un intervento epocale, tenutosi davanti a circa tremila esponenti del mondo economico, politico, scientifico e culturale provenienti da una novantina di nazioni.

Confutando la tesi secondo la quale molti dei problemi globali (conflitti regionali, terrorismo, povertà, crescente disparità di risorse, cambiamento climatico, ecc.) sarebbero stati originati dal fenomeno della globalizzazione – una  risposta alle forze anti-globalizzazione e populiste che avevano all’epoca spinto Donald Trump alla Casa Bianca – Xi non solo presentava se stesso come uno strenuo difensore del libero commercio e dell’apertura economica, ma effigiava la Cina come «cittadino globale responsabile» il cui impegno precipuo sarebbe stato quello di favorire l’integrazione internazionale.

Che il leader della Repubblica Popolare Cinese si ergesse a paladino del libero commercio risultava quantomeno difficile da comprendere e per molti forse anche da accettare: Xi, tuttavia, aveva calcolato perfettamente i tempi di tale pronunciamento guardando alla direzione che sia l’Europa sia gli Stati Uniti stavano intraprendendo.

Mentre Xi articolava il suo discorso a Davos, infatti, la premier Theresa May si preparava a sancire il divorzio del Regno Unito dall’Unione europea, sferrando un colpo ferale nei confronti di tutti coloro che avevano visto nell’integrazione regionale la soluzione alle difficoltà in ambito economico e di sicurezza; come se non bastasse, i successi elettorali delle forze politiche populiste e anti-europeiste in Francia, Olanda, Italia e Germania avevano intensificato il timore che l’Unione potesse non avere un futuro certo.

Di lì a tre giorni, inoltre, a Washington si sarebbe insediata l’amministrazione guidata da Donald Trump, il quale più volte aveva messo in dubbio la rilevanza di istituzioni – dalla Nato all’Organizzazione Mondiale del Commercio – su cui l’ordine mondiale si era retto per decenni.

Quattro anni più tardi, Xi ha deciso nuovamente di prendere parte all’incontro annuale del Forum economico, organizzato questa volta in forma telematica a causa della pandemia.

A cosa serve Davos

I leader della Repubblica Popolare hanno ormai da lungo tempo eletto Davos a meta prediletta in cui mettere in mostra le proprie riforme in ambito economico ed evitando puntualmente di fornire una risposta alle spinose questioni politiche interne.

Nel 1992, per esempio, l’allora primo ministro Li Peng prese parte al Forum in un momento in cui la Cina aveva un disperato bisogno di investitori stranieri per superare l’impasse internazionale creata dal massacro di Tiananmen del 1989. 

Almeno all’apparenza il discorso del presidente cinese ha riservato poche sorprese rispetto al 2017: dopo aver sottolineato la trasversalità geografica dei problemi che affliggono il mondo – e la pandemia ne è un esempio lampante – Xi ha ampiamente esaltato le virtù del multilateralismo “inclusivo”, volto, cioè, a dare vita ad una comunità che si basi sulla condivisione di interessi globali.

In tal senso, pur senza tirare esplicitamente in ballo gli Stati Uniti, il presidente cinese ha richiamato l’attenzione sulla necessità di abbandonare atteggiamenti ideologici da “nuova guerra fredda” – un’etichetta a cui il segretario di stato americano Mike Pompeo aveva largamente fatto ricorso nelle sue ultime uscite – implicitamente rimarcando come, nonostante le critiche occidentali, la Cina continuerà a seguire la sua strada, aprendo sempre di più la propria economia basata sui principi di mercato e sugli standard internazionali.

Yomiuri

Xi, del resto, sa perfettamente di essere in una posizione di forza: la Cina, infatti, ha appena reso noto di aver registrato nel 2020 una crescita del 2.3 per cento del PIL, a fronte di un declino sia degli Stati Uniti (-3.6 per cento) sia dell’Europa (-7.4 per cento).

Per la prima volta in assoluto, peraltro, Pechino ha superato Washington in qualità di principale partner commerciale dell’Europa nel corso dei primi undici mesi dell’anno scorso. In prospettiva, la sfida che attende il neopresidente americano è estremamente significativa, dato che la Cina ha già da tempo intrapreso una serie di azioni – mediante investimenti e relazioni commerciali – che potrebbero complicare non poco il tentativo di Biden di rinvigorire le alleanze con l’Europa e i paesi asiatici, già reso difficoltoso sia dalla riluttanza del resto del Partito Democratico di negoziare nuovi accordi commerciali sia dalle pesanti sanzioni adottate dal governo precedente.

Poco dopo l’elezione di Biden, la Cina ha siglato il Partenariato Economico Regionale Globale con altre 14 nazioni asiatiche e, alla fine di dicembre, ha concluso un importante accordo di investimento con l’Unione Europea.

Effetto Covid

In chiusura di discorso Xi non ha voluto esimersi dal celebrare gli sforzi compiuti dal suo paese sul fronte della lotta alla pandemia così come su quello dello sviluppo, dalla sostenibilità alla tecnologia e innovazione.

Malgrado le feroci critiche rivolte alla Cina a causa della presunta scarsa trasparenza sulle origini del Covid-19, Xi ha ricordato come Pechino sia intervenuta prestando il proprio sostegno a più di 150 paesi e ben 13 organizzazioni internazionali, inviando 36 squadre composte da sanitari esperti verso nazioni duramente colpite e cooperando alla realizzazione dei vaccini, rendendoli così fruibili a moltissimi paesi in via di sviluppo.

È molto importante sottolineare come la leadership cinese continui a fare ricorso alla retorica dei vaccini come “bene pubblico”: vista l’ormai scarsa incidenza della pandemia in patria e considerata soprattutto la capacità produttiva delle sue aziende, la Cina sta cercando di dare sfoggio della propria generosità, enfatizzando le marcate differenze, per esempio, con l’approccio degli Stati Uniti, i cui vaccini potranno essere distribuiti ad altri paesi solo dopo che tutta la popolazione americana sarà stata immunizzata.

Poco importa, naturalmente, che, come spesso avviene, ciò che la Cina propaganda come bene pubblico soddisfi in realtà quasi esclusivamente gli interessi dei produttori cinesi.

China's President Xi Jinping smiles to the audience after his speech at the World Economic Forum in Davos, Switzerland, Tuesday, Jan. 17, 2017. (AP Photo/Michel Euler)

Si è trattato, insomma, di un discorso di ampio respiro – peraltro particolarmente apprezzato da Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del Wef, che l’ha addirittura definito “storico” – in cui, in maniera molto pacata, Xi ha richiamato l’attenzione su temi di spessore globale.

La nuova centralità 

Più di ciò che è stato detto, però, è importante il messaggio che Xi ha voluto convogliare all’auditorio, e cioè che la Cina ha ormai assunto un ruolo di assoluta centralità a livello globale, a cui non è disposta più a rinunciare, neanche a fronte delle pressioni che continuano a giungere da parte degli Stati Uniti e della comunità internazionale.

Pressioni su temi rilevanti, come il rispetto della sovranità di Taiwan, dell’autonomia di Hong Kong, dei diritti umani, o la repressione degli uiguri nello Xinjiang che Xi continua a rispedire fermamente al mittente trincerandosi dietro la necessità da parte di tutti di “accomodare le differenze evitando qualunque interferenza negli affari interni degli altri stati”.

Quanto ciò sia coniugabile con l’esigenza – invocata dal presidente cinese a Davos – di aderire alle norme internazionali non è dato saperlo.

Allo stesso modo, l’ammonizione per cui «il forte non dovrebbe bullizzare il più debole» non sembrerebbe avere alcuna validità per la Cina stessa, almeno a giudicare dai continui moniti rivolti a Taiwan, in base ai quali un’eventuale proclamazione di indipendenza si tradurrebbe immediatamente in un conflitto, o alla situazione nel Mar Cinese Meridionale, di cui la Cina reclama la quasi totale sovranità in considerazione di anacronistiche rivendicazioni storiche e in barba a qualunque direttiva internazionale, mettendo a repentaglio la stabilità della regione.

Con lo sguardo all'America

Ancora una volta, e forse non si tratta di casualità, l’intervento di Xi è combaciato con un cambiamento radicale alla guida degli Stati Uniti, anche se ciò, presumibilmente, non coinciderà con una modifica dell’atteggiamento di Washington nei confronti di Pechino.

Biden, infatti, si è detto determinato a curare le ferite provocate al suo paese dall’amministrazione precedente, ma in ambito internazionale sceglierà probabilmente di dare continuità all’aspro confronto con la Cina inaugurato da Trump, circondandosi di alleati disposti a controbilanciare le strategie di Pechino.

Ciononostante, l’anno in corso – cioè quello in cui verrà celebrato il centenario del Partito Comunista Cinese – potrebbe sicuramente essere quello della definitiva affermazione di Xi Jinping, il quale, liberatosi del dissenso e dei pochi avversari politici rimasti è pronto a stagliarsi in qualità di leader alla stregua di Mao.

I libri di storia, tuttavia, sono pieni di esempi in cui l’eccessivo autoritarismo è risultato alla fine insostenibile: se Xi deciderà di forzare la mano a livello internazionale andando, al contempo, verso una sovra-concentrazione di potere in patria potremmo assistere a nuovi, e forse inattesi, sviluppi.

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