- All’appressarsi della Festa della Repubblica del 2 giugno, Meloni e altri nel suo schieramento hanno dato ancor più fiato al progetto culturale nazionalista (per esempio, nel recente convegno al Senato).
- Nel suo Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo (Marsilio, 2023), Alessandro Campi sostiene che il nazionalismo della destra coglie il vento della storia: nonostante la globalizzazione, il fascino della nazione è sempre vivo.
- Nella sua storia, dice Campi, la destra non ha quasi mai dato una definizione plausibile della nazione, ma si è limitata a «retorica e sentimentalismo», a un «patriottismo puramente propagandistico e di facciata» (p. 29).
All’appressarsi della Festa della Repubblica del 2 giugno, Meloni e altri nel suo schieramento hanno dato ancor più fiato al progetto culturale nazionalista (per esempio, nel recente convegno al Senato). Nel suo Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo (Marsilio, 2023), Alessandro Campi sostiene che il nazionalismo della destra coglie il vento della storia: nonostante la globalizzazione, il fascino della nazione è sempre vivo.
Campi e le due nazioni della destra
Ma le buone notizie finiscono qui. Nella sua storia, dice Campi, la destra non ha quasi mai dato una definizione plausibile della nazione, ma si è limitata a «retorica e sentimentalismo», a un «patriottismo puramente propagandistico e di facciata» (p. 29). L’italianità è stata più antropologia che progetto politico, un affare più di piccole patrie che di una nazione di cittadini.
La destra ha visto la nazione come cultura o storia, o come natura, invocando miti di fondazione (spesso posticci), blaterando di fantomatiche etnie e comunità naturali, cercando faticosamente caratteri antropologici e culturali unificanti. È la nazione di Lollobrigida, ma anche la nazione prima deprecata da Bossi e poi abbracciata con entusiasmo da Salvini.
Un nazionalismo adeguato, per Campi, dovrebbe essere il progetto politico di una comunità, che s’incarna in istituzioni politiche condivise: un «perimetro simbolico-legale», dove la nazione aggrega una comunità (p. 172). Solo questo tipo di nazione ripara i guasti della globalizzazione, frena la disgregazione egoistica, permette la solidarietà.
La nazione degli immigrati
Ma, a ben guardare, come che la si concepisca, la nazione non serve agli obiettivi politici dichiarati dei sovranisti. La nazione culturale o naturale non evita, ma anzi eccita il particolarismo. In Italia ci sono molte nazioni culturali o etniche (ammesso che le etnie esistano). Non solo le vecchie piccole patrie pre-unitarie esaltate dalla Lega delle origini (i Celti e la fanta-storia di Bossi, ricordate?). Ma anche nuove patrie di recente costituzione. Da almeno trent’anni il nostro paese è meta di immigrati dal nord dell’Africa, dalla Romania, dall’Albania, dall’Asia, che formano delle comunità culturali e sociali, con nuove identità miste: italo-romeni, italo-marocchini, e così via. Come potrebbe, chi adotta una concezione culturale o addirittura etnica, negare loro la condizione di nazioni? Sono nazioni invisibili, nazioni miste, ma comunque nazioni.
Ci sarà pure l’invasione (che non c’è affatto, se si guardano i numeri e le intenzioni), o addirittura un tentativo di sostituzione etnica (solo nella testa di Lollobrigida: gli immigrati vengono per vivere meglio, non per sostituire etnie inesistenti).
Ma il nazionalista culturale o etnico non può aver niente da ridire. Sono nazioni, hanno occupato un territorio, vi hanno dato forma, magari anche valore (si pensi ai distretti cinesi, alla casbah a Mazara Del Vallo, al contributo all’economia sommersa del nostro paese, ai pomodorini che stanno arrivando alla buvette della Camera, forse raccolti da mani nere?). Proprio come, secoli prima, altri hanno occupato la penisola italiana e costruito la loro vita e la loro storia lì. Ogni nazione nasce da un’occupazione illegittima che poi viene legittimata dalla storia. Gli invasori del passato sono i cittadini del presente, i presunti invasori di oggi, volente o nolente, saranno cittadini nel futuro. L’Italia non può che essere uno Stato multinazionale.
La nazione di chiunque
Con buona pace di Lollobrigida, e come sostiene Campi, forse alla destra farebbe più comodo vedere la nazione come progetto politico concreto. Ma la nazione è una mera funzione, in questo caso. Serve a dare leggi comuni, solidarietà e unità a una comunità. Ma non dice nulla sui confini della comunità.
Chi c’è dentro? Perché non si dovrebbe essere solidali con chi da generazioni vive e produce benessere insieme a noi in Italia? Il sovranismo della nazione come progetto politico è puro volontarismo, come qualsiasi contratto sociale. Chiunque si trovi qui e voglia aderire al progetto politico della Repubblica non può che essere bene accetto. La cittadinanza non può essere un fatto di sangue, né di tempo, ma solo uno strumento per regolare la convivenza in un pezzo di territorio delimitato arbitrariamente.
Il sogno (o l’incubo) della nazione
Il nazionalismo, diceva Anderson (che Campi non cita), è un prodotto dell’immaginazione. La nazione di Meloni è un sogno (o un incubo). E nei sogni non vige la logica, non servono convegni. Sinché i suoi elettori credono al sogno, la cosa funzionerà per gli obiettivi non dichiarati della destra: lucrare consenso elettorale sulla paura. Sperabilmente, a un certo punto la notte terminerà.
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