- Il sollievo per la fine (auspicata) della fase più dura della pandemia, con i 150 mila morti che ci ha lasciato a piangere, non sembra l’unico sentimento che accompagna l’approssimarsi del nuovo corso.
- C’è chi, anche a causa di fragilità fisiche, paventa il rischio della «convivenza» con il virus. Ma la maggiore inquietudine è quella di restare indietro mentre tutto riparte, nello scenario di incertezza economica e sociale che già torna ad incombere.
- Ciò per cui non siamo pronti, ciò che provoca ansia, è la prospettiva di tornare a pensare ognuno per sé, di ritrovare le dinamiche fin troppo note della competizione sociale con risorse scarse, rese ancora più ineguali dalla pandemia.
«Non siamo pronti a tornare alla normalità». Lo gridano gli studenti nelle piazze, lo pensano tanti lavoratori e lavoratrici, lo dicono le persone per le strade, impacciate da una mascherina che continuano a indossare nonostante l’obbligo sia caduto.
A due anni dalla scoperta del primo caso di Covid-19, grazie al successo della campagna di vaccinazione e alla discesa della curva dei contagi, l’Italia si avvia come altri paesi ad abolire molte delle misure emergenziali che hanno accompagnato la lotta contro il virus.
Dopo lunghi mesi di sovvertimento del quotidiano, di adattamento in massa a modalità inedite di lavoro, studio, consumo, si annuncia così il ritorno all’ordinario.
Eppure, il sollievo per la fine (auspicata) della fase più dura della pandemia, con i 150 mila morti che ci ha lasciato a piangere, non sembra l’unico sentimento che accompagna l’approssimarsi del nuovo corso.
C’è chi, anche a causa di fragilità fisiche, ha trovato nell’isolamento un conforto alla paura e ora paventa il rischio della «convivenza» con il virus. Ma la maggiore inquietudine è un’altra: è quella di restare indietro mentre tutto riparte, nello scenario di incertezza economica e sociale che già torna ad incombere.
Ciò per cui non siamo pronti, ciò che provoca ansia, sembra essere la prospettiva di tornare a pensare ognuno per sé, di ritrovare le dinamiche fin troppo note della competizione sociale con risorse scarse, rese ancora più ineguali dalla pandemia, e verso cui si avverte come tragicamente insufficiente la provvisione di rimedi.
Non dovrebbe sorprendere – né dare luogo a ironie e paternalismi – che gli studenti si rivoltino contro gli esami scritti alla maturità, dopo due anni in cui la scuola non solo ha perso la solidità necessaria al loro sviluppo educativo, dissolvendosi nell’andamento a singhiozzo delle chiusure, ma ha lasciato immutati tutti i deficit pre-esistenti.
In modo simile, per chi lavora il ritorno alla «normalità» significa ritrovare tutti interi i problemi di precarietà, reddito scarso, trasporti inadeguati, assenza di servizi di welfare per minori e anziani, mentre l’aumento dei prezzi e la crisi energetica addensano nuove nubi all’orizzonte.
Le «pesti», scrive Roberto Escobar nel libro Far fronte all’ombra da poco pubblicato da Cortina, ci spingono sull’orlo dell’abisso, ma rivelano un orrore che appartiene a noi, al nostro mondo. Perciò «ci costringono all’impossibile: guardare oltre, alla ricerca di un altrove fermo e stabile su cui il mondo poggi di nuovo». Sono un invito a ricominciare, ricostruire.
Allora le resistenze diffuse dinnanzi alla «normalità» che avanza sono forse l’espressione confusa del rifiuto di un ordine delle cose, del business as usual.
Ma sono anche una protesta per la mancanza di politiche all’altezza dei problemi che la pandemia ha spalancato di fronte a noi, capaci perciò di offrire sicurezze dinnanzi a un futuro spaventoso.
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