- Un elemento comune a tutta l’attività intellettuale e pastorale di Ratzinger è stata la sua strenua battaglia contro il relativismo.
- Ma le società democratiche e liberali non sono totalmente relativiste poiché devono condividere valori come libertà ed eguaglianza. Ciò che sembra relativismo è il frutto della libertà sociale
- La condanna del relativismo è stata quindi la creazione di uno spauracchio strumentalizzato da molti
La morte di Joseph Ratzinger ha fatto riemergere la discussione sulla sua figura. Dopo il doveroso, ma fuorviante, omaggio alla dimensione umana, possiamo ora discutere il suo lascito intellettuale, ostaggio di strumentalizzazioni politiche e pelose.
Il florilegio di "coccodrilli”, scritti anche da parte di persone non vicine alle sue posizioni politiche, rinforza il tratto comune di tutte le ricostruzioni, benevole o critiche, che si sono succedute in questi anni: Ratzinger papa teologo e grande intellettuale.
Se vogliamo prendere sul serio la sostanza di questo giudizio, dobbiamo valutare un elemento centrale del suo pontificato: la lotta contro il relativismo.
Una questione filosoficamente spinosa e millenaria di cui qui non possiamo che toccare solo la dimensione rilevante per la cultura generale.
Secondo Ratzinger, e altri con lui, il relativismo è l’esito del processo di secolarizzazione che si è manifestato nei movimenti degli anni Sessanta del secolo scorso, così come nel liberalismo e nella società dei consumi contemporanea.
La proposta conservatrice ratzingeriana cercava di recuperare la dimensione teologica e di credo della fede di fronte alla dispersione delle questioni al di fuori dell’alveo della chiesa.
Se dobbiamo prendere per buono il punto di partenza, cioè la serietà intellettuale ed esistenziale di questa battaglia, dobbiamo quindi chiederci se questo timore verso il relativismo sia reale.
La vulgata conservatrice vede il relativismo come il processo di perdita di valori, l’assenza di un’àncora valoriale e metafisica, di cui la modernità è portatrice.
Ma se c’è un tratto comune della modernità, qualsiasi cosa significhi, è, al contrario, la proliferazione dei valori e la loro mobilità, che solo un timore verso la diversità può scambiare per assenza di essi.
Le virtù del pluralismo
John Rawls, il grande filosofo liberale americano della seconda metà del secolo scorso, ha sostenuto che il fatto fondamentale delle società liberali e democratiche moderne stia nel pluralismo delle idee e prospettive di vita.
Secondo Rawls è inevitabile che società basate su libertà ed eguaglianza degli individui siano caratterizzate dal pluralismo.
Ma per Rawls, così come per Jürgen Habermas, l’altro grande filosofo liberale e democratico contemporaneo, ciò non significa evanescenza dei valori.
Infatti, la società liberale e democratica ha bisogno, per la sua stessa sopravvivenza, di condividere un insieme di valori in maniera robusta.
I principi di libertà, uguaglianza, cooperazione sociale, anche quando sono solo professati e non praticati, devono essere assunti come oggettivamente validi da tutti i cittadini.
Il senso da dare a questa oggettività post-metafisica e intersoggettiva pone delicate questioni filosofiche che qui non possiamo indagare. Quel che è certo è che non si tratta di relativismo.
Contro la libertà
L’impressione di relativismo proviene, quindi, da una confusione che scambia l’espressione della libertà individuale con l’assenza di riferimenti.
La chiesa ratzingeriana, con il codazzo di teocon dei primi anni Duemila, ha quindi combattuto l’espressione della libertà moderna, non la sua presunta assenza di fondamento.
Il dramma di questa battaglia socio-culturale è stato che in molti hanno creduto, in buona o cattiva fede, a questo equivoco strumentalizzato.
Oltre ai già menzionati teocon, si deve ricordare come, in maniera opposta e speculare, a sinistra qualcuno è caduto nell’equivoco del relativismo.
Infatti, i pochi che hanno convintamente abbracciato il relativismo, lo hanno fatto, in nome del rifiuto dell’uso politico dell’universalismo occidentale.
Rigettando, giustamente, lo scontro di civiltà tra occidente e oriente, tra cristianità e mondo musulmano – ideologia caricaturale secondo cui i valori si possono imporre anche con la guerra – c’è chi ha abbracciato il relativismo culturale, ovvero l’idea di un’indifferenza di fronte a tutte le pratiche culturali, anche quelle frutto di pura oppressione e oscurantismo.
Ma l’universalismo liberale e democratico, se ben inteso, non ha mai sostenuto l’imposizione dei valori.
L’ateo virtuoso
La morte di Ratzinger è quindi il momento giusto per mettere da parte questa falsa diatriba, usata strumentalmente da chi la guerra voleva muoverla per motivi inconfessabili, con l’involontario placet di chi semplicemente si opponeva ai frutti della libertà dei moderni.
Pur con tutti i loro difetti, le società contemporanee mostrano quotidianamente la realtà di ciò che nella prima modernità appariva come uno scandalo: l’ateo virtuoso, cioè l’indipendenza della moralità dalla fede.
Capire cosa significhino i valori che stanno alla base delle nostre vite è un compito socialmente e culturalmente complesso, che non deve farsi distrarre da una polemica fuorviante.
Ciò che sembra relativismo è lo sfarfallio multicolore delle nostre vite di fedeli e miscredenti, una varietà che poggia su basi più solide di ciò che pensava Ratzinger.
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