- Sono tanti gli italiani che potrebbero lavorare a distanza e con maggiore flessibilità, ma non la maggioranza: il 37 per cento, secondo le prime stime.
- La quota varia da settore a settore, nell’edilizia, il commercio o l’intrattenimento più dell’80 per cento dei compiti deve essere svolto in presenza.
- Hanno maggiore facilità di cambiare modalità di lavoro le persone impiegate in lavori intellettuali e più pagati. Se lo smart working è un diritto, molti ne sono esclusi.
Il lavoro da remoto è una delle maggiori eredità della pandemia nelle nostre vite quotidiane, sia questo il moderno e poco diffuso smart working, formula tutta italiana per indicare (più nella testa dei suoi sostenitori che nei testi normativi) una modalità di lavoro che supera i vincoli di tempo e di spazio, o invece il più diffuso telelavoro, che semplicemente sposta il luogo di lavoro dall’ufficio a casa, a orari e vincoli invariati.
Siamo di fronte a un cambiamento che segnerà profondamente il modo di vivere il lavoro soprattutto delle generazioni che si sono affacciate negli ultimi dieci-quindici anni nel mondo lavorativo. La diffusione dello strumento dipende dalla platea dei lavoratori che possono oggi lavorare da remoto, tolte le condizioni emergenziali che hanno spesso spinto a distanza anche a mansioni e ruoli per i quali la prossimità fisica era fondamentale.
Da un lato ci sono i lavoratori che, in virtù delle loro particolari mansioni, della disponibilità tecnologica e della cultura organizzativa della loro azienda possono e, dall’altro, quelli che non possono.
Se il lavoro da remoto fosse concepito come un diritto, cosa che in molti sostengono, si delineerebbe una forte diseguaglianza tra chi è in grado di esercitare questo diritto e chi, per condizioni al di fuori della sua volontà, no.
Negli ultimi mesi sono stati pubblicati alcuni studi embrionali che forniscono un quadro: secondo Armanda Cetrulo ei suoi coautori, 2020, su 100 lavoratori italiani sono 30 quelli che potrebbero lavorare da remoto, pari a 6,9 milioni su un totale di 23 milioni circa.
Un rapporto in linea con il 37 per cento stimato negli Stati Uniti. Sono tanti, dunque, ma non la maggioranza e comunque non è affatto scontato che tutti i lavori che possono teoricamente essere svolti a distanza vengano effettivamente eseguiti in questo modo.
Pesano molti fattori: dalla disponibilità di tecnologia sia da parte dell’azienda che da parte dei lavoratori, fino alle scelte organizzative delle imprese che hanno la libertà di non stipulare accordi di lavoro a distanza anche a fronte della presenza di tecnologia che li consentirebbe.
Un’opportunità non per tutti
In una analisi pubblicata a giugno 2020 Istat ha stimato per diversi settori la quota di personale impiegato in compiti che possono essere svolti da remoto. In settori come i servizi di alloggio e ristorazione, l’assistenza sociale, i servizi alla persona, le costruzioni, il commercio all’ingrosso e al dettaglio e l’intrattenimento, più dell’80 per cento dei compiti deve essere svolto in presenza. Quota che cala drasticamente nei servizi informatici (meno di un quarto), nella fornitura di energia elettrica e gas e nelle attività professionali e scientifiche.
Più variegato il quadro della manifattura nel quale però domina la presenza fisica per oltre l’80 per cento dei lavoratori nella produzione alimentare, abbigliamento, legno e prodotti da minerali, molto più bassa invece nel mondo farmaceutico.
A questa netta distinzione tra settori Istat aggiunge poi un ulteriore dato interessante mostrando come la dimensione aziendale incida molto sulla presenza di lavoratori da remoto, che crescono in modo proporzionale alla grandezza delle imprese.
A una analisi più approfondita è emerso come ruoli e mansioni che possono essere più facilmente eseguiti a distanza sono di natura direttiva, amministrativa e nell’ambito dei lavori intellettuali. Una considerazione di per sé banale ma che ha conseguenze economico-sociali rilevanti: se guardiamo ai salari, è stato stimato all’interno della forchetta 500-1.800 euro mensili lo stipendio dei lavoratori che non hanno la possibilità di lavorare da remoto e all’interno di quello 1.000-2.000 euro mensili coloro che ne avrebbero la possibilità.
La possibilità di lavorare a distanza dunque non è per tutti e spesso si concentra nei lavori più qualificati e meglio retribuiti. Quasi a segnare un ulteriore distanza tra ruoli e salari che già divergevano aggiungendo anche ora la dimensione dell’autonomia e della libertà che un vero lavoro a distanza, declinato nel moderno smart working, potrebbe consentire.
Occorre tenerne conto prima di costruire un dibattito fondato sui supposti benefici per tutti, non tanto per ridurre la diffusione del lavoro a distanza quanto piuttosto per individuare strade per poterlo diffondere senza che esasperi la diseguaglianza, sapendo però che non sarà possibile farlo per tutti.
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