I lavori del G20, quest’anno presieduti dall’Italia, proseguono intensi. Circa i possibili risultati, le notizie disponibili suggeriscono elementi di ottimismo e alcune preoccupazioni.

Fra i primi vi è il ruolo unificante del Finance Track, i lavori coordinati dai ministri delle Finanze coi governatori delle banche centrali, il cui vertice di Venezia ha avuto molta eco perché si è occupato anche della tassazione delle multinazionali.

L’agenda del G20, un tempo strettamente finanziaria, dopo aver affrontato con alcuni buoni risultati la crisi del 2008-9, si è arricchita di svariate tematiche, coinvolgendo tutti i principali ministeri dei governi, rischiando astrattezza e poca operatività delle conclusioni. Era scarso il saldo fra gli ampi obiettivi d’insieme e l’approntamento di risorse e provvedimenti per perseguirli. Quest’anno la regia sembra più unitaria ed è chiaro che le più varie esigenze di un mondo colpito dalla pandemia richiedono il coinvolgimento immediato delle agende dei ministri finanziari. 

D’altra parte è anche promettente che si stia lavorando sulle interconnessioni fra i problemi. Il merito è sempre dell’urgenza pandemica che ha messo in luce come la salute degli uomini, quella degli animali, delle piante e degli oceani, il clima e la lotta alla povertà siano da tener presenti insieme. Emerge la saldatura fra problemi sanitari e finanziari. L’epidemia ha colpito l’occupazione, e ha dettato trasformazioni tecniche e industriali: impossibile non cogliere l’urgenza di occuparsi insieme di politiche del lavoro, produttività, demografia, emancipazione femminile, educazione e ricerca.

Un filo di ottimismo pare giustificato anche nei confronti dell’annosa questione della governance del G20, da tempo considerata inadeguata per carenza di istituzionalizzazione e di poteri espliciti del gruppo come tale, di frequenza e continuità delle agende, di supporto tecnico per studiare e realizzare i programmi.

La questione non è superata ma la si avverte meno perché, sempre per le caratteristiche della crisi epidemica, risulta più fruttuoso per il G20 essere catalizzatore una governance diffusa che trova nelle istituzioni internazionali come il Fmi, il Wto, l’Oms e l’Ocse sia la base di studio dettagliato dei problemi che le cinghie di trasmissione con le leadership politiche che, a loro volta, ritrovano proprio quest’anno la potenza della spinta statunitense.

Le preoccupazioni

Ma non mancano le ragioni di preoccupazione e pessimismo. Di esse si è fatto interprete, con toni esagerati, anche un apprezzato commentatore come Martin Wolf che ha intitolato sul Financial Times: Il G20 ha fallito nell’affrontare le sue sfide.

Wolf ha puntato il dito su quelli che considera i due temi più importanti: la diffusione rapida ed equanime dei vaccini e l’emergenza climatica. In entrambi i casi gli impegni gli paiono inadeguati. In particolare, la correlazione inversa fra la percentuale dei vaccinati e il grado di benessere e sviluppo dei Paesi mostra carenza di solidarietà.

Con qualche supponenza, Wolf dice che mondo «rimane tribale». Dai lavori in corso può in effetti sorgere il dubbio sulla quantità e tempestività di impegni che però si stanno delineando, coinvolgendo anche promettenti cooperazioni fra governi e privati, comprese le grandi società farmaceutiche. Aspettiamo con trepidazione molti dettagli e i risultati del lavoro politico-diplomatico in corso.

Non genera ottimismo l’evoluzione politica della Cina e la difficoltà di coordinare le diplomazie nei suoi confronti. La questione è delicata anche per i rilevanti rapporti economici e creditizi cinesi con i Paesi in via di sviluppo. È triste la scarsa unità di voci che mostrano i Paesi UE, al di là di alcune apparenze. L’Europa non adeguatamente unita esalta il valore marginale della leadership Usa della quale beneficiamo tutti ma dalla quale rischiamo di sviluppare troppa dipendenza.

Sul piano strettamente finanziario c’è per ora squilibrio fra considerevoli e tempestivi impegni per assicurare a tutti liquidità nell’emergenza di breve e quelli più imprecisi e scarsi per la trasformazione dei debiti dei Paesi poveri ed emergenti in investimenti per lo sviluppo sostenibile di lungo periodo.

Si nota inoltre timidezza nel disporre un più trasparente coordinamento delle principali politiche monetarie, impegnando i loro stessi statuti a maggiori responsabilità internazionali. E non è adeguata l’ansia nel preparare insieme fin d’ora la difficile contrazione che nei prossimi anni dovrà aver luogo degli stimoli fiscali e finanziari che nell’ultimo decennio hanno diffuso sovrabbondante liquidità e debito in tutto il mondo.

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