È stato il generale Vannacci con il suo libro “Il mondo al contrario” a parlare del tema della normalità
La cattiva notizia è che la normalità esiste. La buona è che, per sua natura, non sta mai ferma, anzi, muta di continuo. Il “normale” è qualcosa di tipico, comune, generalmente diffuso, e che per questa sua diffusione acquista forza morale e valenza pubblica.
Qualcosa che di fatto prevale e, come per magia, si tramuta in norma. E non si creda che detta normalità riguardi solo aspetti dal valore esistenziale, sempiterno terreno di lotta politica, come la sessualità, il genere o il modo di educare la prole.
Si pensi ad esempio a quanto ci sembra anormale chi è disposto a sborsare cifre ragguardevoli per un caffè defecato da uno zibetto – che, povero, non riesce a digerire la parte interna delle bacche di cui va tanto ghiotto (né partecipa agli utili). E costui o costei ci sembrerebbe poco normale se pure ci spiegasse che si tratta di un pregiatissimo caffè chiamato kopi luwak, di sublime gusto e sentori insuperati, prodotto solo in certe zone dell’Indonesia.
Inutile quindi negare che esistano costumi dominanti. Dove c’è qualcosa come la società, lì c’è un modo consueto di fare le cose, tutte le cose. Maniere di parlare, vestire, mangiare, amare e odiare, insomma vivere, che vengono reiterate da un gran numero di persone e dunque si sedimentano come i modi corretti di fare le cose.
Negli ultimi due secoli, moltə teoricə hanno tentato di isolare quel passaggio, denso di archetipico mistero, per cui un certo modo di fare si trasforma nel modo corretto di fare. E costoro mostrano altresì quanto possa rivelarsi oneroso, per chi fa le cose in modo diverso, il fatto che questi modi prevalenti si consolidino in obblighi morali e si traducano in leggi dello stato. In effetti, la normalità vanta una qualità prodigiosa: riesce a far perdere ogni traccia di sé.
Quando le persone, generazione dopo generazione, fanno quelle cose in quel modo, quel che all’inizio prende a farsi quasi per caso trascolora in qualcosa di naturale, quindi per sua natura obbligante. E, secondo un’inferenza di patente disonestà, si prende a pensare: si è sempre fatto così, dunque deve farsi così. Tra i membri di una data società, allora, si diffonde il tanto assurdo quanto solido convincimento che non ci sia altro modo di fare, mentre a questo si associa la superstiziosa credenza per cui il tentativo di trovare modi alternativi costituisce una minaccia per i nostri ingranaggi di vita tanto ben oleati.
Sicché, quando si difendono modi meno convenzionali di essere donna o di fare famiglia o di vestire o di tutto quanto possa venire in mente, non credo abbia senso dire che il normale non esiste, perché, all’opposto, esiste e si difende in modalità spesso violente. Di contro, avrebbe più senso fare luce sul carattere storico di ogni sedicente normalità – un qualcosa che ebbe inizio e avrà una fine, o, più probabilmente, è destinato presto o tardi a mescolarsi con altri parametri di normalità, così come i colori della pelle dellə nostrə antenatə, non esattamente diafana, si mescolarono tra loro per dare vita a quelle molteplici sfumature che rozzamente sintetizziamo con “bianco”.
Perché ogni normalità nasce attorno a una serie di contingenze, quale modo più o meno efficace di risolvere alcuni problemi tipici di un certo tempo e un certo luogo; quando quelle contingenze cambiano, inevitabilmente tutto ciò che è normale mostra i segni dell’età. Così, ad esempio, quando si diffondono nuovi modi di provare affetto o di mettere al mondo o di organizzare le incombenze di casa, emergono nuove esigenze di vita famigliare, che il modo “normale” di fare famiglia, per limiti connaturati, non sa soddisfare.
D’altro canto, quando il normale scricchiola, compito delle istituzioni sarebbe fare opera di rammendo: ricucire lo strappo tra i modi tradizionali di fare le cose e la vita concreta per come va mutando. Anziché commiserare il declino dell’occidente, sarebbe opportuno che i governi nostrani, finanche quelli di orientamento conservatore, propiziassero una qualche conciliazione tra i modi più antichi e le esigenze che vanno via via formandosi.
Anche solo, se si vuole, per ragioni di bieco auto-interesse. Perché le vicende della storia, neppure oltremodo risalenti, mostrano che, quando troppo a lungo e con troppa pervicacia si difende la presunta naturalità delle maniere normali, esiti quasi inevitabili sono la ribellione o la rivoluzione – le quali spesso, per un’ebrezza demiurgica, rovesciano lo stato delle cose e s’incaponiscono a creare forme del tutto nuove, che o non attecchiscono o, prima o poi, sovente più prima che poi, diventano una normalità persino più oppressiva della precedente.
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