Tredici minuti di beffa telefonica alla presidente del consiglio hanno messo in luce due questioni fondamentali. La prima riguarda lo stato di salute della nostra democrazia repubblicana, della sua capacità di tutelarsi. Ma di questo si è ragionato.
La seconda è un elemento che invece non è stato ancora osservato. Al telefono con un presunto rappresentante istituzionale estero, Giorgia Meloni si è comportata non come un presidente eletto secondo le regole della democrazia parlamentare vigente, ma come fosse già stata eletta direttamente dal popolo. La presidente insomma anticipa l’elezione diretta già nei suoi comportamenti quotidiani.
La riforma che non serve
Mi spiego: abbiamo appreso che Meloni tratta di questioni delicate, di rapporti internazionali, addirittura di soluzioni a problemi che travagliano l’intera umanità, scavalcando i colleghi di governo abilitati ad avere la competenza di settore. Tanto che, sicuramente irritato, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha dovuto dire che a palazzo Chigi c’è stata della sciatteria. Ma questa sciatteria è stata possibile perché il comportamento di Meloni è stato fuori dalle regole di un presidente del consiglio che è un primo tra pari.
Questo ci porta a riflettere su cosa possa significare la modifica costituzionale appena proposta. È vero che l’esigenza di una riforma si sente da decenni, ed è matura anche nel paese. Ma per rispondere all’indebolirsi del sistema democratico, fenomeno evidente, e comunque fondato su alcune constatazioni.
La prima, fondamentale: si va affievolendo la componente essenziale che ha dato vita alla Carta, e cioè il principio dell’allargamento della partecipazione democratica. La partecipazione non è la semplice espressione del voto per la scelta dei propri rappresentanti in parlamento, ma è la partecipazione quotidiana attraverso la vita democratica organizzata che la Carta costituzionale individua nel pluralismo politico civile e sociale – partiti, sindacati, organizzazioni intermedie –, insomma quella che viene chiamata «la democrazia che si organizza». Ebbene, questa partecipazione si è andata affievolendo. Lo si constata con la disaffezione per i corpi intermedi e con l’aumento degli astensionisti.
La partecipazione
Questo dunque è l’elemento essenziale che va affrontato: la ripresa di un nuovo amore, un nuovo slancio vitale del popolo verso le sue istituzioni, verso la sua Carta, per l’attuazione del programma contenuto nella Carta costituzionale.
Lo si può raggiungere con un allargamento della base elettorale - con l’abbassamento dell’età per la partecipazione al voto ai 16 anni - e anche con la revitalizzazione della partecipazione alle decisioni politiche da parte delle comunità. L’idea che la politica doveva essere superata con la globalizzazione, con il dominio della prevalenza degli interessi sui valori, è stata ed è un virus mortale per la democrazia.
Altra riforma necessaria è quella che porti a un maggiore equilibro fra democrazia diretta e democrazia della rappresentanza. La democrazia diretta deve essere allargata, per esempio con l’introduzione dei referendum propositivi e della possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale anche con l’iniziativa diretta di una comunità di cittadini; sarebbe un’altra spinta alla partecipazione.
Altro elemento da superare è lo spreco istituzionale, ovvero l’abbondanza di istituzioni che interferiscono fra di loro. Il paese è maturo per il superamento del bicameralismo perfetto: con una camera alta che decide sulla rappresentanza politica, sulla formazione dei governi, sulla formazione delle leggi, e una camera di garanzia sussidiaria che intervenga sui conflitti fra poteri centrali e periferici dello stato.
Va messa mano anche all’abuso delle autorità di garanzia. E soprattutto va fatta una revisione profonda dell’istituto bastardo dell’autonomia differenziata delle regioni, che tende a creare piccole entità statali, in un processo di desovranizzazione nazionale e di sovranizzazione delle entità sovranazionali.
Meloni e vecchi arnesi
Ma il processo di revitalizzazione della democrazia non è possibile senza una forte volontà politica nazionale per il futuro delle nuove generazioni. Tanto più in un momento storico in cui sono accese guerre che da territoriali rischiano di diffondersi in conflitti di carattere globale, con l’effetto di destabilizzazione degli equilibri democratici interni degli stati e di quelli tra gli stati, che devono fare fronte a guerre che tendono a dilatarsi anziché restringersi.
Il problema dunque oggi non è certo l’elezione diretta o non diretta del presidente del consiglio, o del capo del governo, né quello dei suoi rapporti con le altre istituzioni. Il problema è come superare la frattura del sistema politico italiano, avvenuta nel nostro paese con un ritorno al governo – e questa è la più grande disgrazia che ci è capitata – della destra revanscista, sconfitta prima della Costituzione; cioè un ritorno di forze sconfitte dallo stato democratico repubblicano che aveva liberato il paese dal regime monarchico-fascista antidemocratico, con un referendum, con la guerra civile e con la lotta delle forze democratiche ed antifasciste.
Questa destra revanscista oggi è riapparsa in forme nostalgiche, che puntano al ritorno di vecchi strumenti e vecchi arnesi, come la proposta di elezione diretta del presidente del consiglio, che non serve a rinforzare la nostra democrazia e la partecipazione dei cittadini ad essa.
Ma la telefonata burlesca e beffarda ha ridicolizzato questo governo, ha rovesciato le velleità della presidente del consiglio, l’elezione diretta e il presunto ricorso al popolo. Tutte seppellite dinanzi all’opinione pubblica internazionale, da una crassa risata provocata da comici spioni russi.
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