- La prima ondata di coronavirus, concentrata in Lombardia, aveva mascherato il fatto che la sanità del Sud è in crisi da decenni.
- Nelle ultime settimane, la situazione si è chiarita: le regioni meridionali non riescono a fronteggiare un’emergenza, ma nemmeno l’ordinaria amministrazione.
- Tra le riforme necessarie: ridurre i poteri delle regioni e limitare l’influenza della politica sulla sanità.
La pandemia ha riproposto in termini drammatici la fotografia del dualismo italiano. Il sistema sanitario ha mostrato tutti i suoi intollerabili squilibri territoriali anche se per alcuni mesi è stato alimentato un racconto inverosimile, con la descrizione di una sanità del Sud quasi alla pari con quello del Nord, anzi addirittura migliore.
Ma un sistema sanitario meridionale che non riesce a curare i suoi malati per patologie meno gravi, come poteva fare fronte adeguatamente a una pandemia?
La cattiva prova del sistema sanitario lombardo nella prima fase (e una sostanziale immunità dei territori meridionali in primavera) aveva nascosto la verità: il Sud non era pronto ad affrontare, per mezzi, strutture, attrezzature, personale, una pressione di tale portata e non si è adeguatamente attrezzato tra la prima e la seconda ondata.
I numeri del divario
Da una ricerca della Svimez, solo il 27 per cento dei pazienti dimessi da un ospedale meridionale è soddisfatto delle cure ricevute, mentre al Nord si arriva al 50 per cento. Tutte le regioni meridionali, rispetto ai livelli essenziali di assistenza (Lea) erano agli ultimi posti alla fine del 2019. Le liste di attesa, inoltre, registrano un primato degli ospedali meridionali assieme a quelli del Lazio.
Altissima la percentuale di meridionali che si sono curati negli anni negli ospedali del Nord. Per il 52 per cento è la qualità delle cure che ha costretto alla emigrazione sanitaria, per il 31 per cento la causa sono le lunghissime liste di attesa. Il 41 per cento dei pazienti si sposta per cure oncologiche, il 27 per cento per malattie croniche e il 25 per cento per quelle cardio-vascolari.
Per quanto riguarda i bilanci, nel 2018 erano ancora commissariate sette regioni, tutte meridionali con l’eccezione del Lazio. Ora lo sono la Calabria e il Molise. Relativamente alle infiltrazioni mafiose nella sanità, lo scioglimento di Asl si è verificato solo in Calabria e in Campania. Per la salute, dunque, tra gli altri fattori di rischio era (ed è) da contemplare quello geografico.
Certo, dal 2010 al 2019 ben 37 miliardi di euro sono stati sottratti al sistema sanitario nazionale, tagli che hanno pesato molto di più negli ospedali del Sud.
Certo, gli attuali criteri di riparto del fondo nazionale favoriscono le regioni con più anziani, cioè quelle centro-settentrionali. Certo, la spesa sanitaria per abitanti è fortemente sperequata: la Lombardia riceve 2.300 euro pro capite mentre la Calabria solo 1512. Ma tutte queste ragioni spiegano solo in parte le profonde differenze. Perché ciò che nel Nord è un diritto, curarsi adeguatamente, al Sud è affidato al caso?
Sistemi differenti
Una spiegazione potrebbe trovarsi nel diverso impatto che i settori dei servizi pubblici hanno nelle due aree del Paese: al Centro-Nord, in un’economia industriale forte e autonoma dalle scelte amministrative, il comune, la provincia, la regione (e gli enti di loro emanazione) sono innanzitutto erogatori di servizi collegati ai bisogni dell’apparato produttivo, di modo che questi rispondano alle necessità delle aziende industriali e dei rispettivi lavoratori.
Al Sud, in assenza di un apparato industriale e produttivo forte, gli enti locali diventano centri di redistribuzione di risorse e di opportunità, senza necessariamente erogare servizi efficienti: basta la loro funzione di tenuta economica per legittimarli.
Al Sud la pubblica amministrazione (e l’economia amministrativa che da essa si genera) sostituisce quella produttiva; i comuni, le province e le regioni sono enti che creano occupazione sostituendo le fabbriche, i politici “assumono” alla pari degli imprenditori. Attorno alla salute girano soldi, si fanno soldi e si incide sul consenso politico.
Esiste poi nella sanità, come in altri settori pubblici, una sorta di “keynesismo della disamministrazione”. Pensiamo alle migliaia di opere pubbliche in eterno completamento, spesso di nessuna utilità ma concepite per far “circolare” risorse, o al ricorso a prestazioni private come scelta obbligata a fronte di quella che appare come un’inefficienza programmata del settore pubblico. Il risparmio in questa ottica diventa quasi un «disvalore».
L’amministratore di una Asl dovrebbe essere valutato proprio per il risparmio realizzato o per i servizi di qualità prestati e non per essere un erogatore di cospicue risorse ai laboratori di analisi, ai centri diagnostici e alle cliniche private.
Prendiamo poi il caso degli stessi debiti che le Asl accumulano verso i privati (come farmacie o laboratori). Il fatto che non si abbiano risorse sufficienti per pagarli mette in moto un circuito di avvocati che in alcune realtà del Sud si sono specializzati solo nel recupero crediti sostenuti da capitali di dubbia provenienza.
I creditori ricevono da loro (in genere) il 30 per cento del credito, mentre si avviano lunghe cause che fruttano (anche se dopo anni) il 100 per cento del dovuto più gli interessi.
Come cambiare il sistema
Appena si uscirà da questa crisi verrà il tempo delle riforme radicali nella sanità. Bisognerà ridurre il peso delle regioni nelle scelte sanitarie; eliminare il peso della politica nel settore (nessun aspirante primario deve più passare dagli uffici politici); trovare un metodo diverso nella scelta dei vertici Asl senza farli nominare dai presidenti e dagli assessori regionali; cambiare i criteri di riparto delle risorse e vincolarle all’eliminazione delle liste di attesa e alla cura di patologie che oggi costringono i pazienti a spostarsi al Nord. I servizi pubblici debbono essere giudicati per la qualità della vita in più che garantiscono ai pazienti e non per le risorse che immettono nell’economia.
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