Valditara va alla guerra. Le elezioni regionali e le imminenti europee stanno cambiando la comunicazione governativa. Il ministro dell’istruzione e del merito ha deciso di pubblicare un libro sul suo operato e il suo programma, La scuola dei talenti, e di usarlo per presentazioni in libreria che diventano comizi. È stato interessante quindi assistere alla prima uscita pubblica, alla Mondadori di via Cola di Rienzo, per vedere come Valditara si serva di questa doppia ambiguità: un ministro che si presenta come militante leghista – accanto a lui ha scelto di farsi accompagnare da Matteo Salvini; e un ministro che si presenta come autore/professore e che quindi evita il confronto giornalistico sulle sue iniziative legislative e idee, con la moderatrice dell’incontro Agnese Pini un po’ troppo adesiva al ruolo di corifea che le era stato assegnato.
Nel libro La scuola dei talenti e nell’incontro, Valditara evoca subito il nume tutelare che omaggia: Giovanni Gentile. Il suo nome è quello più richiamato nelle pagine ed è anche la citazione che apre l’incontro. Serve per ribadire un ritornello che Valditara ha provato più volte a imporre in ogni suo intervento pubblico e legislativo: c’è un modello liberale che deve essere l’orizzonte della scuola italiana. E il Gentile ricordato non ha a che fare, secondo Valditara, con il fascismo.
Il suo peana per un liberalismo di marca personalistica è esplicito, in questa prospettiva confessa tanto la sua passione giovanile per Bettino Craxi e quella adulta per Gianfranco Miglio: «Sognavo un grande movimento liberale di massa, capace di portare lo spirito del federalismo, che è spirito della responsabilità, in tutta Italia». Quanto al futuro del suo progetto politico: «È necessario lanciare una grande mobilitazione del privato per la scuola. Fa parte di una visione autenticamente liberale del rapporto con le istituzioni, fondato sulla civicness».
Ma la sua convinzione è addirittura ostentata quando riesce a riscrivere tutta la storia politica italiana sotto il segno di un liberalismo incompiuto: Antonio Gramsci, Concetto Marchesi, i militanti del ‘68, e persino Don Milani, diventano compagni che sbagliano. Hanno capito che allargare la platea scolastica serve allo sviluppo del paese – servono lavoratori, in parole povere – ma poi hanno esagerato quando hanno messo in discussione i rapporti di classe. Siamo vicini alle tesi di Galli della Loggia, Luca Ricolfi, Giuseppe Bertagna (tutti omaggiati nel testo) o Adolfo Scotto di Luzio (chissà perché non citato, anche se molte analisi sembrano davvero clonate sulle sue).
Fin qui abbiamo a che fare con un ministro con cui si può discutere, anche se si è in completo disaccordo: la sua tesi storiografica è davvero debole, la sua analisi del presente tanto passatista da farlo assomigliare a un giolittiano, il modo in cui usa i dati dell’Invalsi è strumentale a una prospettiva di riproduzione dei rapporti di classe che fa specie che il presidente dell’istituto Roberto Ricci – esplicitamente ringraziato nella nota iniziale – abbia acconsentito, nel suo ruolo indipendente, a questo trattamento dei dati.
Ma c’è un’altra versione di Valditara che invece è davvero inguardabile: quella che duetta con Salvini, ministro, leader politico, che però data la sua ostentata impreparazione in materia, si è scelto come al solito il ruolo di “papà”. I momenti peggiori del libro e della presentazione sono quelli in cui la convergenza tra la fame di manodopera a basso costo che è il credo leghista della fabbricchetta si incontra con l’inno ai lavori manuali di Valditara. Come quando si cerca di far passare il valore emancipatorio della costruzione del ponte sullo Stretto, «fonte di reddito ma anche di orgoglio», per cui servirebbero maestranze specializzate, e per cui «il ruolo della scuola è decisivo perché deve formare proprio quelle maestranze». Non siamo ancora dalle parti della battaglia del grano, ma poco ci manca.
Battutine incresciose
L’altro momento davvero imbarazzante è quando Valditara si spinge a parlare di valutazione con Salvini. Da una parte il leader leghista raccontava, pensando di essere simpatico, il suo disastroso curriculum scolastico – occupazioni fatte senza valore politico, assenze strumentali nelle materie che non gli piacevano, contraffazione del libretto scolastico, «ho preso gli schiaffoni e non ho chiamato né il telefono azzurro, né sono finito a Chi l’ha visto». Accompagnando poi questa confessione da ragazzino malandrino con una biliosa volontà di repressione invece oggi, da ministro, per qualunque forma di protesta giovanile.
Dall’altra Valditara metteva in scena un teatrino sconcertante per affrontare il tema della valutazione, tema molto discusso in questi giorni per il decreto del governo che chiede un ritorno alla valutazione sintetica alla primaria. Anche il ministro ha cercato di essere simpatico con il pubblico, leggendo un giudizio descrittivo (raccattato chissà dove, forse un fake) farraginoso e poi ha strillato: «Quale bambino di 9 anni riesce a capire un giudizio del genere?».
È stato un minuto rivelatorio della presentazione, ma lo è anche rispetto all’ideologia abborracciata che Valditara cerca ogni volta di nobilitare attraverso la sua boria professorale o la sua posizione ex cathedra. Da questo semplice pezzo di stand-up malriuscita, si capisce che il ministro 1) sa davvero poco di teoria della valutazione; 2) sta liquidando una riforma – e una formazione e un monitoraggio di questa riforma – che coinvolge da diversi anni centinaia di migliaia di docenti in tutta Italia con una battuta sciapa; 3) non si prende nemmeno la responsabilità di ammettere che la sola ipotesi che un bambino di sei o otto anni sia valutato con “gravemente insufficiente” è gravissima.
C’è un’ultima questione su cui alla presentazione Valditara non ha risposto e che nel libro non si degna di trattare: il dimensionamento. Cioè, la radicale riduzione nei prossimi anni dei plessi scolastici. Ma siccome è una discussione di merito, per il ministro già in campagna elettorale, è solo un argomento molesto.
© Riproduzione riservata