Dovrebbe essere chiaro a tutti, ai potenti leader di governo come agli opinionisti e ai cittadini, a coloro cioè che contribuiscono, in forme e con autorità diverse, a creare l’opinione nelle nostre democrazie, che anche qualora Hamas venisse sconfitto, resterebbe comunque la questione palestinese.
Resterà fino a quando non si tradurrà in una forma statuale (o insieme o accanto a quella di Israele), fino a quando cioè quel popolo potrà contare su un sistema nazionale di difesa come tutti gli stati, senza affidarsi a milizie, fanatici e fondamentalisti al soldo di chi mira ad esercitare un'egemonia sulle popolazioni arabe e musulmane (e non solo) della regione.
A queste forze (che sono stati, non popolazioni) la questione del popolo palestinese interessa poco, disposte come sono a creare le condizioni per una carneficina della quale non sono meno responsabili del governo israeliano guidato da Netanyahu.
La sicurezza di Israele dipende dalla sicurezza dei palestinesi. Insistere su questo legame, mostrarne la forza morale e la ragionevolezza politica, comporta lasciar cadere gli argomenti che si stanno cucinando ora dopo ora nei nostri paesi; argomenti che generano un odio di tipo religioso, come quello che presenta questa guerra in Medio Oriente come uno “scontro tra e di civiltà”, una lotta tra il “bene” e il “male” che comanda di stare in religiosa identificazione con un popolo contro un altro.
La sicurezza dei due popoli dipende dalla sicurezza di ciascuno di loro. Diversamente c’è sterminio, eliminazione dell’altro, guerra permanente. Questa logica è stata all’origine dell’antisemitismo del Novecento che ha fatto scrivere all’Europa una delle pagine più vergognose della storia dell’umanità, e che ha avuto un peso non indifferente nelle scelte su come chiudere il libro, per risolvere quel che l’Europa aveva prodotto.
Lo scontro religioso identitario che giustifica la guerra santa è il baratro nel quale rischiamo di cadere, nuovamente. Dovrebbe essere la missione delle opinioni pubbliche del mondo, a partire da quelle dell'Europa e dei paesi democratici, proferire parole chiare, senza balbettii. Per questo, l'argomento dei diritti umani fondamentali e del diritto internazionale è il più forte.
Messo oggi sotto i piedi dalle logiche del consenso mediatico e da leader politici improvvidi, questo argomento è la sola strada per aiutare il processo di sospensione delle ostilità, primo passo di un processo verso un nuovo ordine politico nella regione, che sarà oggettivamente difficile e lungo. Ad esso non si può rinunciare, come sempre nei casi di guerra. Ma in questo caso soprattutto, perché non c'è soluzione, ora che tutte le soluzioni di ripiego o del meno peggio sono state esplorate, e si sono rivelate perdenti e foriere di conseguenze terrificanti. La debole e frammentata voce dell’Unione europea, l’andare in ordine sparso dei leader di governo dei suoi paesi membri, è indicativa di una logica binaria che è la peggiore nemica della pace.
L’Europa, quella che abitiamo, è nata su un patto chiaro, quello dell’anti-antisemitismo. Identificare quel patto con le posizioni che si possono avere sulle decisioni del governo israeliano è irresponsabile.
La crescita di forme di antisemitismo (che si riflette in altre forme discriminatorie) non va minimizzata. E non si argina né con la logica della guerra santa né con la repressione delle opinioni – la strada autoritaria è come ossigeno per l’antisemitismo.
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