- La cultura di una formazione politica è più solida se si fonda su una guida valoriale e su una base scientifica.
- Una nuova generazione di studi offre spunti e risultati che mostrano come la riduzione delle diseguaglianze possa ancora essere un principio caratterizzante dell’azione politica progressista, e come strumenti e politiche “passate di moda” possano essere invece efficaci.
- Esiste quindi un ampio e solido spazio intellettuale che, si spera, dia alla sinistra odierna il coraggio di rivendicare le proprie idee e proposte caratterizzanti per combattere ingiustizie e disuguaglianze.
Nel suo saggio Destra e Sinistra del 1994, Norberto Bobbio indicava nel principio di uguaglianza il valore caratterizzante e guida dell’azione politica della Sinistra. Gli anni Novanta, però, forse non erano il momento migliore per rivendicare questa caratterizzazione.
Per legittimarsi dopo la fine dei regimi comunisti, il mondo politico e culturale progressista, anche in Italia, presto si unì ad altri nel considerare acriticamente le forze di mercato come generatrici di efficienza economica e benessere sociale. Le derivanti diseguaglianze si giustificavano col principio di meritrocazia e la mobilità sociale che il mercato garantiva.
Governi di centro-sinistra promossero deregolamentazioni del mercato del lavoro e della finanza e accelerazioni sull’apertura del commercio estero, si entusiasmarono per le nuove tecnologie digitali, e sostennero la competizione in ogni ambito e ad ogni livello – incluse l’istruzione le la sanità.
Negli stessi anni, tuttavia, una nuova generazione di economisti cominciava, dati alla mano, a mettere in discussione proprio quelle politiche economiche e sociali che sembravano incontrovertibili.
Nel suo libro Unbound, Heather Bouhsey, consigliera economica del presidente Joe Biden, descrive questi nuovi studi come un cambio di paradigma nella disciplina economica e nella sua capacità di informare politiche progressiste.
La sinistra Italiana sta vivendo una profonda crisi di identità che difficilmente si potrà superare senza un confronto fra visioni del mondo e fondamenti scientifici e culturali.
La “trappola della meritocrazia” e i suoi costi
Un assunto della teoria economica è che le forze di mercato premino il talento attraverso la competizione, sia fra lavoratori sia fra imprese; questo processo genera crescita ed equità perché offre a tutti, indipendentemente dalle loro origini, le stesse opportunità.
Miles Korak (University of Ottawa) ha evidenziato invece che maggiore disuguaglianza coincide con minore mobilità sociale (in cima alla classifica dei paesi occidentali con più disuguaglianza e minore mobilità ci sono Stati Uniti, Inghilterra, e Italia).
Raj Chetty (Harvard) ha mostrato come il luogo di nascita e l’estrazione socio-economica dei genitori sempre più determinino le opportunità economiche dei figli. Per raggiungere posizioni di successo i ragazzi hanno oggi bisogno di più istruzione scolastica, ma anche di conoscere le lingue, viaggiare, fare attività extra-curricolari.
Solo le famiglie più benestanti se lo possono permettere. Chi già ha può investire per avere sempre di più e aumentare i propri privilegi, mentre chi è’ svantaggiato in partenza rimane tale per generazioni.
Questa corsa “al rialzo” porta sia all’aumento delle disuguaglianze sia a una nuova gerarchia sociale per censo. Daniel Markovits (Yale University) la chiama “trappola della Meritocrazia”. Talento socialmente utile, che non ha i mezzi per realizzarsi, rischia di venire disperso.
Gli studi di Karen Dynan (Harvard), inoltre, dimostrano che l’impoverimento della classe media porta a una riduzione globale dei consumi; a sua volta, questo restringe le opportunità di investimento per le imprese.
Javier Jaravel (London School of Economics), per esempio, ha scoperto che sempre più innovazioni sono su prodotti riservati alle classi alte. Si crea quindi circolo vizioso in cui si riducono i consumi e una quota minore dei risparmi (di chi se li può permettere) è impiegata in investimenti produttivi.
Il fatto che non tutti i paesi abbiano lo stesso livello di disuguaglianza e (im)mobilità sociale, tuttavia, suggerisce che questi processi, socialmente ed economicamente costosi, non siano ineluttabili, ma siano anche il frutto di scelte politiche diverse.
Il lavoro “buono”
Il tipo di cambiamento tecnologico degli ultimi trent’anni, e l’accelerazione della globalizzazione, tendono a polarizzare il lavoro: da una parte sono premiate professioni di alto livello, e dall’altra lavori a basso valore aggiunto. Il crollo dell’occupazione ad esempio nella manifattura e in alcuni servizi tipici della “classe media” porta a un aumento della disuguaglianza.
Susan Helper (Case Western Reserve University), capo economista al Department of Commerce durante la presidenza Obama, ha evidenziato la speciale natura del settore manifatturiero, caratterizzato da lavori di qualità, cioè ad alto valore aggiunto e che consentono una crescita professionale, senza tuttavia richiedere una laurea. Gli Impieghi in alcuni servizi hanno simili caratteristiche.
La riduzione dell’occupazione in questi settori priva quindi di “buoni lavori” una massa di persone e le alternative accessibili, tipicamente nei servizi a basso valore aggiunto, sono meno remunerative, meno gratificanti, e con condizioni di lavoro peggiori.
Dani Rodrik (Harvard), Charles Sobel (Columbia) e Laura Tyson (Berkeley) vedono nella mancanza di “buoni lavori” una delle sfide economico-sociali più difficili della nostra era. Il problema riguarda sempre più anche le economie a redditi medio-bassi, dove l’automazione sta crescendo e sostituendo molte occupazioni.
Oltre ai costi economici, un rischio forse maggiore è l’erosione della fiducia nella capacità di società aperte, democratiche e a economia di mercato di garantire un futuro di diffuso benessere.
L’intervento pubblico e politiche industriali che dirigano investimenti in certi settori, approcci a lungo indicati come inefficienti, sono invece strumenti utili per correggere queste dinamiche.
Tassazione, sussidi, e corpi intermedi
La necessità di ridurre l’imposizione fiscale, e in particolare le aliquote più alte, è stato uno dei marchi distintivi delle politiche economiche negli anni Ottanta specialmente nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Secondo questa visione, le tasse riducono gli incentivi al lavoro e all’investimento, e quindi la crescita e il benessere.
Sussidi per le categorie più deboli hanno simili conseguenze. Nello stesso contesto ideologico si inserisce anche il crescente fastidio verso il ruolo di corpi intermedi come i sindacati, visti come un’ulteriore distorsione del mercato.
La ricerca economica contrappone evidenza di segno diverso. Il lavoro di Thomas Piketty (Paris School of Economics), Emmanuel Saez (Berkeley) e Stefanie Stantcheva (Harvard) ha mostrato che il timore di una riduzione degli incentivi al lavoro di fronte ad aliquote alte è sovrastimato.
Saez e Gabriel Zucman (Berkeley) hanno poi sottolineato che una tassazione fortemente progressiva, anche se non aumentasse significativamente il gettito fiscale, ha avuto storicamente il compito esplicito, per esempio negli Stati Uniti, di limitare eccessive disuguaglianze, potenzialmente costose e destabilizzanti.
La tassazione, inoltre, può essere uno strumento efficace per indirizzare l’innovazione verso tecnologie che valorizzino il lavoro, invece di sostituirlo, come sostiene Daron Acemoglu (Massachusetts Institute of Technology).
Sussidi generalizzati e incondizionati, come il reddito universale, stanno anch’essi vivendo una nuova fase di interesse.
L’evidenza recente mostra che questi trasferimenti possono aumentare sia l’incentivo a investire in se stessi, sia il proprio benessere, oltre ad offrire maggiore capacita’ di consumo.
Riguardo al ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva, uno studio di Henry Farber (Princeton), Daniel Herbst (University of Arizona), Ilyana Kuziemko (Princeton) e Suresh Naidu (Columbia) ha evidenziato che una presenza più forte del sindacato porta a una riduzione delle diseguaglianze di reddito.
Suresh Naidu e atri hanno anche mostrato come il potere contrattuale di grandi imprese e piattaforme online mantenga i salari artificialmente bassi. Sindacati piu’ forti possono quindi avere un ruolo di riequilibrio che porti a più equità ed efficienza.
Barbara Biasi (Yale) e Heather Sarsons (University of Chicago), infine, hanno identificato un ruolo della contrattazione collettiva nel ridurre un’altra forma di disuguaglianza, quella di genere.
La base scientifica dei valori
La cultura di una formazione politica è più solida se si fonda su una guida valoriale e su una base scientifica, pur riconoscendo che sia i valori, sia i risultati della scienza, si aggiornano ed evolvono.
Una nuova generazione di studi offre spunti e risultati che mostrano come la riduzione delle diseguaglianze possa ancora essere un principio caratterizzante dell’azione politica progressista, e come strumenti e politiche “passate di moda” possano essere invece efficaci.
Esiste quindi un ampio e solido spazio intellettuale che, si spera, dia alla sinistra odierna il coraggio di rivendicare, senza complessi e subalternità, le proprie idee e proposte caratterizzanti per combattere ingiustizie e disuguaglianze.
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