In tempi poveri di ideali ed esempi, può capitare che resti per decenni, nell’immaginario collettivo, la scena di un candidato alla presidenza del Consiglio che, di fronte a un giornalista compiacente, firma in tv un fantomatico “contratto con gli italiani”. Eppure l’immagine è a suo modo potente, suggestiva. Si rappresenta una transazione con valore legale: pacta sunt servanda, lo disse Annio Ulpiano duemila anni fa e lo dice l’articolo 1372 del Codice civile. Al contratto con gli italiani seguirono, poi, quello di governo del 2018, officiato dall’avvocato del popolo, e quello elettorale e poi di governo del 2022 tra i partiti della destra.

Forse memori di questi precedenti, diversi politici e osservatori hanno concluso che anche i partiti di centro e sinistra, incapaci di formare alleanze coerenti e coese, dovrebbero adottare la stessa formula. Non solo (e ovviamente) un contratto di per sé non servirà a saldare la coalizione. Ma, più importante, è proprio l’idea di contratto a negare l’essenza dell’azione politica e di governo. Per almeno due ragioni.

La prima è che un contratto è tipicamente una transazione privata, in cui le parti si accordano su cosa scambiarsi e come: un bene o servizio in cambio di denaro, una quota di una società in cambio di una quota dell’altra, e così via. Ogni parte beneficerà di quello che otterrà dall’altra più di quanto godesse di quella che dà in cambio (altrimenti la transazione non avverrebbe). L’oggetto dello scambio, inoltre, è indipendente da altre attività delle parti stesse.

Governare con efficacia, stabilità e coerenza, al contrario, richiede di affrontare un insieme di temi e problemi distinti ma connessi. La definizione di un salario minimo, per esempio, non è compatibile con una maggior flessibilità e la parcellizzazione del lavoro stesso, e quindi uno “scambio” tra questi due punti di programma li annullerebbe entrambi. Intensificare la lotta alla corruzione dei “colletti bianchi” mal si concilia con riforme del sistema giudiziario che eliminino reati come l’abuso d’ufficio, così come il contrasto all’evasione fiscale non può essere scambiato con un aumento alle soglie dell’utilizzo del denaro contante.

Difficile anche scambiare lo stare dalla parte degli imprenditori “senza se e senza ma” con la difesa dei lavoratori e dei sindacati. Ognuno di questi temi andrebbe affrontato con una combinazione di interventi, come un unico “pacchetto”. Ma all’interno di ognuno di questi pacchetti, e di altri, ci sono elementi sui quali le attuali forze di centrosinistra hanno idee molto diverse fra loro.

Peraltro le esperienze passate dovrebbero insegnare.

Il governo “gialloverde” attuò in tempi rapidi riforme sostanziali, come i decreti Sicurezza, il decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, seguendo una logica contrattuale: il primo provvedimento in capo alla Lega, in cambio degli altri due “scambiati” col Movimento 5 stelle. Ma le contraddizioni (non tanto nelle politiche in sé, ma in quello che rappresentavano) si sono presto rivelate inconciliabili.

L’attuale governo si tiene a sua volta, semplificando un po’, su un contratto in cui ogni parte ottiene qualcosa, come se non fosse collegata alle altre: la lotta ai migranti, la riforma della giustizia, la concentrazione del potere nel presidente del Consiglio e il depotenziamento del parlamento, e un’estrema autonomia regionale. In questo caso, a differenza del governo Lega-M5S, l’incompatibilità si sta manifestando o nella forma di un immobilismo di fatto mascherato con riforme annacquate, oppure con decisioni, come la riforma costituzionale e l’Autonomia differenziata, che non saranno mai attuate, per mancanza di tempo o perché bocciate da organi giudiziari o dal voto popolare.

La seconda ragione per evitare di parlare di contratti in politica è che, inevitabilmente, nessun contratto è completo: ci può sempre essere, anche nelle transazioni più semplici, una circostanza che il contratto non ha previsto, e le parti dovranno rinegoziare. Questo vale a maggior ragione per situazioni complesse e continuamente in evoluzione come l’azione politica.

Inoltre, mentre due contraenti privati possono rivolgersi a un giudice terzo, il contratto politico non ha valore legale. In situazioni come queste, la cooperazione può continuare se tra le parti esiste, nel gergo delle scienze sociali, un “contratto relazionale”: nelle loro ripetute interazioni, le parti rinunciano volontariamente a qualcosa per segnalare la propria affidabilità e contando sul fatto che anche gli altri facciano lo stesso. Sono quindi la fiducia, la reputazione, e l’interesse a continuare a collaborare nel tempo che suppliscono ai limiti formali di questo tipo di relazioni. Ma se un contraente non rispetta il patto implicito allora il precario equilibrio si rompe. E con esso si può incrinare la fiducia reciproca e compromettere la reputazione di chi ha defezionato.

Anche in questo caso le notizie non sono buone per il centrosinistra. La reputazione di Matteo Renzi di non rispettare i patti e pensare solo al suo tornaconto è ormai solidificata; l’imprevedibilità e incoerenza sistematica di Carlo Calenda giocano pure a sfavore. E non aiutano nemmeno il talento di Giuseppe Conte per dire e fare le cose sbagliate al momento sbagliato, né, anche se silenti dall’inizio della segreteria Schlein, le lotte interne fra le correnti del Partito democratico.

Meglio sarebbe impegnarsi a definire, innanzitutto, i principi comuni che dovrebbero caratterizzare l’iniziativa politica della coalizione. Accordarsi su cosa si intende per equità, cittadinanza, benessere, opportunità, disciplina, dignità, servizio pubblico, conflitto di interessi, ruolo dell’Italia nella politica internazionale. Qualcosa di simile a un processo costituente che rappresenti poi la guida alle proposte specifiche di governo, e una motivazione ulteriore per rispettare gli impegni presi.

È altrettanto auspicabile dismettere le manie di protagonismo e la ricerca spasmodica di attenzione mediatica o di affari lucrativi, così come la tentazione di sottrarsi quattro voti a vicenda, e il dilettantismo. Sono tutti comportamenti che riducono la fiducia reciproca.

Il centrosinistra, o cosa ne resta, ha sprecato i primi due anni del governo Meloni. Ce ne sono altri tre, il tempo non manca per intraprendere un percorso senza scorciatoie, né mancano nemmeno le idee su cui confrontarsi. Quel che ancora non si vede è la volontà credibile e condivisa di avviare questo processo.

Un processo essenziale innanzitutto per la salute della democrazia. Speriamo questa sia una motivazione sufficiente anche per i più riluttanti.

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