- Migliaia di docenti, studenti, giornalisti, musicisti, ma anche impiegati, lasciano il paese: solo in Georgia, fino a domenica scorsa, son entrati 25.000 cittadini russi.
- Si lascia la Russia perché si temono ripercussioni, dopo aver preso parte alle proteste, o perché si son già avute minacce e avvisi “particolari”, che possono convertirsi in una lunga detenzione.
- Un forse piccolo, ma significativo esodo, che rompe rapporti, lacera le famiglie e lascia indietro pezzi della propria vita. In parte è anche la mia storia, l’aver chiamato guerra la cosiddetta operazione speciale oggi, in Russia, è passibile di denuncia.
La guerra in Ucraina, ufficialmente chiamata dalle autorità russe “operazione speciale”, ha portato a un’ondata di sanzioni nei confronti di Mosca senza precedenti nella storia, e con ripercussioni immediate per l’economia e per la società.
Le misure prese riguardano tutti i settori dalla vita del paese, e creano difficoltà crescenti giorno dopo giorno, non solo per la fascia alta della popolazione: molte catene di supermercati, tra cui Auchan, Lenta, Metro, Perekrestok, hanno stabilito un limite agli acquisti dei prodotti di prima necessità.
Da sabato scorso, infatti, si possono comprare solo 10 chili di zucchero, 3 confezioni di sale, 10 bottiglie d’olio, 10 chili di farina e 10 pacchi di pasta, riso o grano saraceno. Limitazioni che riportano la Russia di oggi indietro agli anni Novanta, con la differenza però di essere ancor più gravi per la repentinità della loro introduzione.
È proprio la rapidità del cambio dello scenario socioeconomico russo a porre molti interrogativi sulla capacità di tenuta del Cremlino al momento, e a far tracciare ipotesi di ulteriori sconvolgimenti, questa volta in grado di porre termine all’età putiniana.
Per la gente comune si tratta di far fronte alle incognite di una vita che non è più la stessa, e non si tratta solo di una questione di mero consumismo, legata alla chiusura (per ora temporanea) dei Mc Donald’s e degli Starbucks, ma di dover abituarsi a qualcosa di completamente diverso.
Nonostante i sondaggi ufficiali del Vtsiom diano cifre rassicuranti per il consenso al presidente Vladimir Putin, pari al 70 per cento, si percepisce l’ansia di poter perdere il posto di lavoro, e nemmeno il pagamento dei salari fino a tre mesi dalla cessazione del lavoro (è il caso di Ikea) riesce a rendere la pillola meno amara, perché si tratta di una totale ridefinizione dell’immediato presente, mai avvenuta con tale velocità nella storia della Russia contemporanea.
Ai problemi sociali ed economici si aggiungono le restrizioni ulteriori alle libertà civili e democratiche, con particolare attenzione a colpire l’informazione.
La stretta sull’informazione
L’approvazione della legge sulle fake news e sul vilipendio alle forze armate russe, con pene fino a 15 anni, è più di un segnale di questa nuova fase dell’età putiniana, e le nuove misure vengono già adottate nei processi seguiti ai fermi di polizia durante le manifestazioni di questi giorni.
Chiudono alcuni media storici, come Ekho Moskvy, e Dozhd, testate di grande interesse come Znak o Novaya Gazeta son costrette al mutismo o ad adottare evolute perifrasi, perché Roskomnadzor (l’Authority russa dell’informazione) minaccia giornalisti e redazioni di denuncia ai sensi della legge sulle fake news.
Aci provvedimenti giudiziari si alternano le tristi forme di persecuzione della libertà d’espressione sui luoghi di lavoro e di studio, come nel caso dell’espulsione dall’Università statale di San Pietroburgo degli studenti fermati nel corso delle proteste contro la guerra, l’adozione in molti atenei di circolari dove si invita alla delazione contro chi prende posizione in modo critico, e le pressioni sui lavoratori delle organizzazioni e degli enti statali.
Non vi è solo la risposta di piazza, o il rinchiudersi nel privato. Migliaia di docenti, studenti, giornalisti, musicisti, ma anche impiegati, lasciano il paese: solo in Georgia, fino a domenica scorsa, son entrati 25.000 cittadini russi, e le cifre son probabilmente più o meno simili ai confini con l’Estonia, la Lettonia e la Finlandia e agli aeroporti di Baku, Erevan e Istanbul.
Si lascia la Russia perché si temono ripercussioni, dopo aver preso parte alle proteste, o perché si son già avute minacce e avvisi “particolari”, che possono convertirsi in una lunga detenzione, senza nemmeno poter far appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo (da dove la Russia è stata esclusa).
Un forse piccolo, ma significativo esodo, che rompe rapporti, lacera le famiglie e lascia indietro pezzi della propria vita. In parte è anche la mia storia, l’aver chiamato guerra la cosiddetta operazione speciale oggi, in Russia, è passibile di denuncia,
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