- "La propensione alla speranza in tempi difficili sembra in qualche modo collegata all’eventuale esito positivo, se esso si verifica. Se il paziente o la famiglia abbandona la speranza (o espande erroneamente la speranza in un eccesso di aspettative), ciò probabilmente significa che non verranno provate nuove terapie”.
- “La speranza si espande verso l’esterno, la paura si contrae. Ma se contengono sostanzialmente lo stesso concetto e se non sono le probabilità a fare la differenza, che cosa distingue i pensieri e le attitudini della persona che produce questa diversità di sentimenti?”
- "La speranza implica la visione di un mondo positivo che potrebbe realizzarsi e, spesso almeno, le azioni legate al suo conseguimento. L’effetto placebo mostra che, almeno in molte situazioni, pensare che si guarirà produce un reale miglioramento”.
Martha C. Nussbaum è una delle più importanti filosofe viventi, insegna Law and Ethics alla Law School della University of Chicago. Questo brano è tratto dal suo nuovo libro appena pubblicato per il Mulino, La monarchia della paura, in libreria da oggi
Cos’è la speranza? È un’emozione bizzarra. E stranamente, nonostante la sua importanza, non è quasi mai discussa estesamente dai filosofi. Una concezione diffusa chiaramente inadeguata è quella per cui la speranza implica il desiderio di un risultato, sommato alla previsione che tale risultato sia abbastanza probabile. Ciò è sbagliato per tre motivi. Innanzitutto, la speranza in realtà non dipende dalla nostra valutazione delle probabilità. La gente spera in un buon esito medico per sé o per i propri cari anche quando la prognosi è fosca. Infatti, quando aumenta la probabilità di un buon risultato, la speranza inizia a sembrare superflua e viene spesso sostituita da allegre aspettative. (La stessa cosa accade con la paura: quando l’esito negativo si approssima alla certezza, la paura si trasforma in disperazione o fatalismo o in un terrore che svuota la mente.) La propensione alla speranza in tempi difficili sembra in qualche modo collegata all’eventuale esito positivo, se esso si verifica. Se il paziente o la famiglia abbandona la speranza (o espande erroneamente la speranza in un eccesso di aspettative), ciò probabilmente significa che non verranno provate nuove terapie. Se una nazione rinuncia alla speranza quando viene attaccata da un nemico potente, non intraprenderà strategie coraggiose che alla fine potrebbero rivelarsi vincenti. La connessione tra speranza e azione è importante.
Accettare l’impotenza
Il secondo problema inerente alla concezione legata al desiderio e alla probabilità è che la speranza implica non solo il desiderio di qualcosa di buono, ma una sua valutazione come bene importante, che vale la pena perseguire (questa valutazione potrebbe essere sbagliata, quindi stiamo solo parlando di ciò che la persona pensa). In questo momento desidero un cono gelato, ma non spero di averne uno: è troppo banale, a mio avviso, per tale emozione. (Quando avevo 5 anni speravo in un gelato, perché nel mio mondo di bambina era davvero importante! Anche gli adulti a volte sperano in cose davvero banali – per esempio la vittoria della propria squadra del cuore – che però dentro di loro assumono enorme importanza, come il bambino con il gelato.)
L’esempio del gelato mi conduce a un ulteriore problema: la speranza, come la paura, comporta sempre una significativa impotenza. In questo preciso momento desidero una bottiglia d’acqua. E se avessi voglia di andare nel seminterrato dove si trovano i distributori automatici ne prenderei una. Prima o poi lo farò. Ma non spero in una bottiglia d’acqua: ciò significherebbe che in qualche modo non sono in grado di procurarmela da sola, o che sono abituata a essere servita da persone abbastanza inaffidabili.
Gli antichi greci e romani avevano fatto propri tutti e tre questi punti, quindi non commisero l’errore di definire la speranza in termini di desiderio e di probabilità. Invece sostenevano che la speranza è parente stretta o il rovescio della medaglia della paura.
Entrambe implicano la valutazione di un risultato come molto importante, entrambe implicano una grande incertezza sul risultato ed entrambe presuppongono una buona misura di passività o di mancanza di controllo.
Pertanto agli antichi la speranza non piaceva, per quanto concordassero nel ritenerla gradevole: la speranza tradisce una mente troppo dipendente dalla fortuna. «Cesserai di temere, se avrai finito di sperare», scrive Seneca. «Ambedue si esprimono in un animo sospeso nell’incertezza, che attende con ansia il futuro».
La posizione stoica secondo cui dovremmo isolarci dagli shock dolorosi disinteressandoci di ciò che sta al di fuori di noi rimuove troppe cose, non lasciando sussistere alcun amore per la famiglia o il proprio paese, nulla che renda la vita davvero degna di essere vissuta.
Ma se lasciamo spazio all’amore profondo allora ci toccano le paure e le speranze, e talvolta un profondo dolore. Quindi dovremmo respingere la rimozione stoica sia della speranza sia della paura. Ma dovremmo riconoscere che gli stoici hanno ragione nel considerarle parenti strette. Dove hai paura avrai speranza. Qual è, allora, la differenza tra le due?
Non solo dolci delizie
Gli stoici chiamano le speranze «dolci delizie» e sanno che la paura è una sensazione orribile. Usano anche metafore come «espansione» ed «elevazione» quando si parla di speranza, mentre la paura va di pari passo con la «contrazione» e il restringersi.
Anche noi parliamo in questo modo: la speranza ha le ali, ha le piume come un uccello, si libra verso l’alto. Le colonne sonore dei film horror sanno come suscitare la paura. La musica della speranza è totalmente diversa. (Penso alla delicata e adorabile The Lark Ascending (1914) di Vaughan Williams, che esprime speranza per l’Europa nei giorni pericolosi che hanno preceduto la Prima guerra mondiale. Ma c’è una musica della speranza in ogni genere musicale.)
Le due emozioni differiscono, chiaramente, nei sentimenti caratteristici che le accompagnano e nel comportamento della persona che le sperimenta. La speranza si espande verso l’esterno, la paura si contrae. Ma se contengono sostanzialmente lo stesso concetto – vale a dire che un risultato stimato importante è incerto – e se non sono le probabilità a fare la differenza, che cosa distingue i pensieri e le attitudini della persona che produce (o sperimenta) questa diversità di sentimenti? Sembra che la differenza stia nell’enfasi. È come il caso del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Il bicchiere è lo stesso, diverse sono l’enfasi e la prospettiva.
Nella paura ti concentri sul risultato negativo che può verificarsi. Nella speranza ti concentri sul positivo. La filosofa Adrienne Martin nel suo libro How We Hope aggiunge un aspetto molto importante. La speranza, sostiene Martin, è più simile a una «sindrome» che a un semplice atteggiamento o a un’emozione: include pensieri, immaginazione, preparativi per l’azione, persino azioni.
Non si tratta in realtà di una peculiarità della speranza; anche la paura ha forti legami con l’immaginazione e l’azione. Ma quali sono le azioni e i pensieri caratteristici della speranza? Direi che la speranza implica la visione di un mondo positivo che potrebbe realizzarsi e, spesso almeno, le azioni legate al suo conseguimento.
Alcune azioni potrebbero essere simili a quelle provocate dalla paura, poiché evitare una possibilità negativa può essere molto simile a promuoverne una positiva. La paura del pericolo, quando è proporzionata e sana, incoraggia strategie evasive che possono giovare alla sicurezza e alla salute. Eppure esiste una differenza.
Un paziente che ha molta paura può rimanerne paralizzato; un paziente fiducioso può essere più energico nel cercare soluzioni. E forse, anche se sappiamo ancora troppo poco in merito, la speranza in sé ha efficacia. L’effetto placebo mostra che, almeno in molte situazioni, pensare che si guarirà produce un reale miglioramento. La speranza non si basa su tali credenze probabilistiche, come ho detto, ma potrebbe essere altrettanto efficace.
La speranza pratica
L’idea di Martin sulla connessione tra speranza e azione positiva è potente, ma la speranza non funziona sempre così. A volte la speranza è inerte e impotente e può persino distrarre dalle attività utili. Nella vita accademica conosciamo tutti persone che vivono nella speranza: sperano che un giorno scriveranno qualcosa di buono, si immaginano a leggere un bell’articolo che hanno prodotto, lo vedono stampato nelle pagine del Journal of Philosophy, ecc. Ma quel genere di cose può essere un miraggio autoindulgente o addirittura sostituirsi al lavoro. In tali casi avremmo ragione a preferire la persona che lavora senza alcun particolare atteggiamento emotivo rispetto alla persona che indulge in emozioni e fantasticherie senza lavorare.
Dobbiamo quindi distinguere – cosa che Martin non fa – tra quella che potremmo definire «speranza oziosa» e quella che potremmo chiamare «speranza pratica», che è saldamente legata e dà energia all’impegno volto all’azione. E se di certo esiste la speranza oziosa, spesso la speranza può essere davvero pratica: le belle immaginazioni e illusioni coinvolte nella speranza possono stimolare all’azione verso l’obiettivo desiderato.
È difficile mantenere l’impegno per una dura lotta senza tali pensieri e sentimenti che diano energia. La differenza tra paura e speranza è labile. È come premere un interruttore: ora il bicchiere sembra mezzo pieno. E spesso, anche se non sempre, queste immagini mentali svolgono un’importante funzione pratica, preparandomi ad agire in direzione dell’obiettivo desiderato e convincendomi che è a portata di mano.
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