- Perché abbia senso parlare di «transizione ecologica» bisogna intendersi, perché essa implica cambiamento e perché questo sia effettivo ed efficace dovrà essere radicale, qui e ora.
- Cambiamento tecnologico e produttivo ma anche cambiamento nelle logiche e nel discorso pubblico. La transizione ecologica non può essere neutra o addirittura apolitica, perché deve colpire da una parte e favorire dall’altra.
- La transizione ecologica è «progressista», perché guarda al futuro – ed è per questo che i conservatori la temono – ma anche perché è giusta ed equa. La transizione ecologica ci riguarda – tutti, individualmente, e come paese, anche se siamo piccola cosa nel grande mondo.
La transizione ecologica è necessaria e lo è qui e ora. Nessun gradualismo è ammissibile. L’emissione di gas serra procede a passo spedito. Non tutti, però, vi contribuiscono allo stesso modo. Secondo gli ultimi dati della International Energy Agency (agosto 2020) sei paesi – Cina, USA, India, Russia, Giappone e Germania – sono responsabili del 60% dei gas serra totali emessi nell’atmosfera. Anche l’Italia fa la sua parte: al 20°posto del ranking mondiale, la nostra emissione è di 33 giga-tonnellate, poco meno della metà di quella dei tedeschi. Il nostro contributo pro-capite, però, ci porta al 15° posto (5.56 tonnellate a testa), meno di tedeschi, polacchi e inglesi, ma più di tutti gli altri europei. Storicamente, poi, l’emissione cumulata di gas serra è attribuibile per 25% agli USA, per il 22% ai paesi UE, e per 12,7% alla Cina.
Cambiamento climatico
L’emissione di gas serra contribuisce al cambiamento climatico e al riscaldamento globale. Globalmente, il 2020 è stato, con il 2016, uno degli anni più caldi della storia (registrata). Eppure, la «disuguaglianza climatica» è sotto gli occhi di tutti. I paesi più colpiti non sono i paesi che producono più gas serra e non lo sono nella stessa misura. E nei paesi, non tutti subiscono le conseguenze nella stessa misura. I gas serra sono prodotti da una serie di attività, in cima alle quali, naturalmente, c’è la produzione di energia (il 73.4%, globalmente), seguita da agricoltura e zootecnia (18.4%). L’energia viene prodotta per l’industria (24%), i trasporti (16%), il riscaldamento (17.5%). Sono queste le attività responsabili del grosso delle emissioni di anidride carbonica, il principale dei gas serra (è per questo che si parla di «de-carbonificare»).
Impronta ecologica
Le nostre emissioni di gas serra sono state tradotte nel colorito termine di carbon footprint («impronta ecologica»). Il fatto è che tutti noi abbiamo un’impronta data da ciò che facciamo: quanto gas per il riscaldamento, quanta benzina nella nostra auto, quanti viaggi in aereo, e via dicendo. Una famiglia media americana produce un’impronta di 49 tonnellate annue di gas, una famiglia media italiana circa la metà. Certo, le medie non raccontano che una parte della storia. L’impronta ecologica dipende, infatti, dal nostro stile di vita. E, in buona parte, da dove viviamo e dal nostro reddito. Le famiglie con un reddito più alto, che hanno abitazioni più grandi, più auto e moto e viaggiano di più, hanno un’impronta maggiore di quelle meno abbienti. L’organizzazione Oxfam, in un recente rapporto, ha calcolato, sulla base dei consumi medi tradotti in «stili di vita», che il 10% dei più ricchi, nel mondo, è responsabile del 49% dell’emissione di gas serra legati alle abitudini, mentre al 50% meno ricco è attribuibile solo il 10%(per chi fosse interessato, c’è una pagina della Agenzia per la Protezione Ambientale EPA americana dove ci si può calcolare la propria impronta ecologica).
Il problema, si dice, è che grande parte di queste emissioni non è «eliminabile», date le tecnologie e le abitudini esistenti. In realtà, è stato calcolato, quelle davvero ineliminabili sono circa un quarto: al resto si potrebbe porre rimedio, subito. Non è questione, in buona sostanza, di tecnologia, ma di stili di vita e anche, di come la nostra società è organizzata. Guardiamo ai trasporti. A domande del tipo «vogliamo forse un mondo dove ogni famiglia non abbia un’auto per ogni suo membro?», oppure «vogliamo che la gente vada a fare la spesa in autobus o prenda il treno per andare al mare?», la risposta deve essere che non dobbiamo lasciarci guidare dal mercato. L’urbanizzazione ha portato al congestionamento e al traffico. Perché, allora (giusto per fare un esempio), non proibire l’uso dell’auto in città e dotare le nostre aree urbane di migliaia di mezzi pubblici (magari elettrici)? Se ognuno di noi avesse una navetta, esattamente sotto casa, che lo portasse dove vuole andare, chi avrebbe bisogno dell’auto?
Treni, ambiente e produttività
Lasciarsi guidare dal mercato – e dalla logica produttivistica: produzione uguale occupazione uguale reddito – non è necessariamente saggio, il mercato funziona nelle condizioni date, non tiene conto né dei beni comuni né del «bene» in generale, risponde solo a domanda e offerta. Quando fu deciso di permettere ad ogni operaio di avere la sua Fiat 500 fu fatta una scelta: favorire l’industria automobilistica e soddisfare la domanda di quel bene. Il trasporto su rotaia, meno inquinante, con un impatto ecologico molto minore, è stato sacrificato a vantaggio del trasporto su gomma, è stato detto molte volte: una scelta di politica industriale e non solo, una scelta politica (uno stile di vita consumistico). Anni fa, quando le nostre FS cominciarono a tagliare i «rami secchi», le piccole ferrovie che si inerpicavano su per le valli, nessuno obbietto. Quello che era importante, nei conti delle FS, erano i ricavi e i costi. Ma i costi della collettività avrebbero dovuto includere il costo ambientale diretto e indiretto per tutto quel gas emesso da auto, camion e bus su per le valli. Non basta cambiare il modo in cui si calcola il PIL (come ora dice di voler fare l’ONU), includendo l’impatto ambientale. Va anche cambiata la contabilità aziendale e addebitare i costi sociali alle aziende.
Un modello da cambiare
La logica produttivistica sostiene che questo, purtroppo, è il prezzo che dobbiamo pagare per produrre sempre di più. Se il PIL non cresce, sono guai. Per chi, però? Negli ultimi 15 anni, il PIL mondiale è raddoppiato, il PIL per abitante dei paesi ricchi è passato da 25mila a 41mila dollari, quello dei paesi meno ricchi da 650 a 1950 dollari. Certo, il loro è triplicato, il nostro non è nemmeno raddoppiato, ma la distanza è aumentata! E noi produciamo molto più gas serra di 15 anni fa (anche per recarci in vacanza in quei paesi). Inoltre, quell’aumento di PIL è andato per lo più ai nostri ricchi (l’aumento di reddito per l’1% più ricco è stato del 450%, per il 50% più povero del 40% in 26 anni, come riporta il World Inequality Report). Il cambiamento che la transizione ecologica esige è questo: non basta cambiare «motore», bisogna cambiare l’organizzazione della società e dei servizi, indirizzare le scelte tecnologiche con politiche fiscali e incentivi, cambiare le «logiche». Se continuiamo a pensare che sia solo un fatto «tecnologico» non andremo lontano. Si impongono scelte, informate e lungimiranti. Il mercato non ci potrà guidare, come non ci guidò nel passaggio dal carbone al petrolio, fu solo la convenienza a determinare il passaggio.
Perché la transizione ecologica è «progressista»? Perché guarda al progresso dell’umanità, guarda avanti, non indietro, a come tornare alle buone vecchie abitudini del passato, non curandoci delle conseguenze. Ed è progressista perché mette in discussione l’ordine diseguale corrente, l’attuale disparità nella distribuzione e nell’attribuzione delle responsabilità (e dei costi). Non basterà, ai ricchi, mettersi la coscienza a posto consumando meno carne, se poi comunque non si cambia qualcosa più alla radice. È il nostro modello di sviluppo che va cambiato. E come si pensano le alternative (ne parleremo in una prossima puntata).
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