- Ogni scenario per il 2022 deve tener conto della sostenibilità del debito accumulato che ha raggiunto nel mondo il 350 per cento del Pil.
- L’esperienza con i mercati insegna che la sostenibilità sociale dell’inflazione costituisce in questo momento il rischio principale per il mercato del debito.
- Se quest’anno venisse meno il convincimento che la crescita dei prezzi ritornerà presto ai livelli degli ultimi venti, aumenterebbero le probabilità di una crisi del debito, con un forte rialzo dei tassi a lunga nel mondo. E sarebbe l’Italia a farne maggiormente le spese.
Ogni scenario per il 2022 deve tener conto della sostenibilità del debito accumulato che ha raggiunto nel mondo il 350 per cento del Pil (fonte Financial Times). Ai fini della sostenibilità finanziaria conta soprattutto il debito pubblico perché si è visto come durante le crisi gli Stati tendano ad accollarsi molta parte del rischio di credito dei privati.
In Italia si tende a considerare la sostenibilità del debito esclusivamente in chiave nazionale, legata ai vincoli internazionali (Patto di stabilità) e ai rapporti con le istituzioni comunitarie (Bce, Mes, Commissione). Questo porta a vedere la sostenibilità come un problema di finanza pubblica: si definisce l’avanzo primario (imposte meno spese al netto degli interessi) necessario a stabilizzare il rapporto debito/Pil entro un livello che si ritiene “critico”. È il criterio alla base del famoso tetto del 60 e 3 per cento del Pil per debito e deficit, rispettivamente.
E’ indubbio che stabilità politica e finanza pubblica siano fattori rilevanti per il nostro “spread” (il differenziale di tasso tra decennale italiano e tedesco) ma un simile approccio non aiuta a capire il potenziale rischio di una crisi globale del debito che causerebbe un generalizzato rialzo dei tassi a lungo termine, a cominciare dagli Usa, e che colpirebbe più severamente l’Italia per le sue debolezze strutturali.
Quando scoppia la crisi
La sostenibilità è un concetto finanziario che dipende dal comportamento e psicologia degli investitori più che dalle teorie e dalla politica economica. Un debito è sostenibile se ci sono investitori disposti ad acquistarlo e tenerlo in portafoglio.
La crisi scoppia quando non ci sono compratori per le nuove emissioni, e l’offerta eccede la domanda anche per lo stock esistente di debito: il tasso di rendimento schizza in alto, segnalando uno stato di crisi che riduce ulteriormente la domanda, creando una spirale perversa.
I fondi “speculativi” cercano di anticipare gli andamenti di mercato puntando sullo steepening della curva (comprano titoli a lungo termine usando derivati, e contemporaneamente vendono quelli a breve); i tassi cominciano a salire spingendo tutti gli altri investitori a disfarsi del debito a lunga scadenza (i tassi si muovono inversamente rispetto ai prezzi) e in questo modo la crisi si sviluppa molto rapidamente.
Non ci sono fondamenti teorici o convincenti evidenze empiriche per stabilire livelli “critici” del debito oltre il quale si rischia una crisi.
Molti sono gli esempi di debitori a lungo in equilibrio finanziario pur con un indebitamento “eccessivo”, come pure di crisi scoppiate nonostante livelli “bassi” di debito.
Inoltre, i criteri usati per definire un livello “critico” sono inutili a prevedere i tempi di una eventuale crisi (ovvero quanto a lungo si può rimanere sopra questo livello critico), o spiegare perché le crisi tendano a svilupparsi rapidamente.
I rischi per Stati Uniti ed Europa
Negli Stati Uniti, un’eventuale crisi del debito sarebbe caratterizzata da una fuga dai titoli di stato a lungo termine; l’impennata nei rendimenti farebbe crollare il mercato dei mutui e le valutazioni dei titoli azionari in borsa, con un forte effetto ricchezza sui bilanci delle famiglie.
Nonostante l’inflazione abbia raggiunto il 6,8 per cento nel novembre scorso (quando ad aprile le stime la davano al 2 per cento) la Federal Reserve ha chiarito che aumenterà i tassi monetari probabilmente già da marzo, ma molto gradualmente (come si evince dai cosiddetti dot plots): dallo 0,25 per cento attuale a poco sopra il 2 nel 2024, per arrivare al 2,5 a regime.
Sorprende quindi che negli ultimi mesi i tassi a 10 anni siano rimasti in media all’1,5 per cento, per poi salire oltre l’1,7 negli ultimi giorni: tassi comunque inferiori di quelli a breve che la Fed si attende nel lungo periodo.
Una spiegazione sarebbe che l’inflazione rallenta e si stabilizza poco sopra il 2, e i tassi a lunga si allineano gradualmente a quelli a breve: significherebbe però una curva dei rendimenti piatta con tassi reali nulli che non sono compatibili con la prospettiva di una crescita stabile. Un’altra, che i bassi rendimenti scontino invece una recessione dovuta a un rialzo tardivo ed eccessivo della Fed per contrastare un’inflazione in crescita.
Anche questa poco convincente perché i tassi a lunga incorporano le aspettative di inflazione, e difficilmente la Fed rischierebbe una recessione in assenza di aspettative in forte rialzo.
Più persuasiva la spiegazione che si basa sulle scienze comportamentali secondo cui l’ultima l’esperienza è quella che conta: dopo 20 anni di prezzi stabili è naturale che risparmiatori e investitori istituzionali si siano assuefatti alla stabilità dei prezzi e tendano ad estrapolare il futuro dal passato.
Reagire troppo tardi
Se l’inflazione perdurasse nei prossimi mesi, pur rallentando rispetto al recente picco, e si diffondesse tra gli americani la percezione che la crescita del costo della vita stia erodendo il reddito disponibile e la ricchezza previdenziale, si rischierebbe facilmente una fuga dal reddito fisso.
I fondi speculativi cercherebbero di anticiparla, innescando la valanga di vendite da parte di risparmiatori e istituzioni. La Fed non potrebbe intervenire comprando titoli per stabilizzare il mercato, perché aumenterebbe solo le aspettative di inflazione, peggiorando la crisi.
La recente esplosione del debito nell’Eurozona è spiegata soprattutto dalla necessità, con lo scoppio della pandemia, di mantenere il consenso verso le istituzioni comunitarie, minato da anni di austerità e crescenti populismi ma anche dall’interesse della Germania a contrastare il declino del proprio modello economico dovuto ai ritardi tecnologici, la carenza di infrastrutture e la crisi di un’industria manifatturiera esportatrice che vede la Cina diventare da primario mercato a principale concorrente.
La politica fiscale espansiva è destinata dunque a durare. Pertanto, è molto probabile che si troverà un accordo per innalzare i tetti di debito e deficit del Patto di Stabilità, e un modo per sterilizzare il debito pubblico accumulato dalla Bce.
Come negli Stati Uniti, però, il rischio di una crisi dipende dal comportamento degli investitori che guarderanno più alle ripercussioni sociali dell’inflazione che alle finanze pubbliche. Come gli americani, anche gli europei sono assuefatti alla stabilità dei prezzi: se percepissero che l’inflazione comincia a erodere reddito e ricchezza (che nell’eurozona è in gran parte costituita da reddito fisso) correrebbero a disfarsi dei titoli di debito per proteggere i propri risparmi.
Già ora i tassi negativi sui titoli tedeschi anche a 10 anni stanno avendo un effetto devastante sul risparmio previdenziale che in Germania è basato sui rendimenti di mercato. E come per la Fed, in caso di crisi la Bce difficilmente potrebbe contrastarla con acquisti massicci e prolungati di titoli perché alimenterebbe le aspettative di inflazione; specie dopo aver annunciato una riduzione degli acquisti dai circa 80 miliardi medi mensili del 2021 ai 20 di fine 2022, proprio nella convinzione che l’inflazione ritorni presto sotto l’obiettivo del 2 per cento.
L’esperienza con i mercati insegna che la sostenibilità sociale dell’inflazione costituisce in questo momento il rischio principale per il mercato del debito.
Se quest’anno venisse meno il convincimento che la crescita dei prezzi ritornerà presto ai livelli degli ultimi venti, aumenterebbero le probabilità di una crisi del debito, con un forte rialzo dei tassi a lunga nel mondo. E sarebbe l’Italia a farne maggiormente le spese.
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