I genitori preferiscono essere molto aperti e poco giudicanti, così da incentivare la condivisione dei problemi e dei segreti.
Se ti giudico di meno, se mi metto al tuo livello, tu mi racconterai di più, avrai meno misteri.
Controllerò meglio la tua vita e lo farò in modo simpatico. Il controllo, del resto, è un tema educativo contemporaneo: lo chiamerei “il controllo gentile”.
Un’amica ha una figlia tredicenne con la quale, dice, ha “un ottimo dialogo”. O per meglio dire la figlia le racconta molte cose. Almeno una volta al giorno va dalla madre per qualche confidenza, problemi con le coetanee, tensioni legate alla scuola, qualche ragazzino che le piace, e persino dubbi esistenziali che mettono la mia amica filosoficamente alla prova.
Non si tratta di una situazione scontata, mi spiega, alcuni suoi conoscenti non hanno la stessa intensità di dialogo con i figli che si affacciano all’adolescenza.
Ma non si tratta neppure di una situazione troppo rara, oggi accade che genitori e figli parlino molto.
Accade più che in passato, i genitori preferiscono essere molto aperti e poco giudicanti, così da incentivare la condivisione dei problemi e dei segreti.
Se ti giudico di meno, se mi metto al tuo livello, tu mi racconterai di più, avrai meno misteri. Controllerò meglio la tua vita e lo farò in modo simpatico. Il controllo, del resto, è un tema educativo contemporaneo: lo chiamerei “il controllo gentile”, un po’ come “la spinta gentile” delle teorie economiche comportamentali, là dove si cerca di influenzare le scelte delle persone senza farsi notare.
Chissà se è giusto: le relazioni fra genitori e figli sono relazioni come tutte le altre, ognuna dunque ha le sue regole, quindi non so se abbia senso trarre conclusioni troppo rigide.
Ma ogni tanto mi chiedo se i figli debbano rivelare così tanto di sé alla propria madre o al proprio padre.
Forse mi lascio influenzare dall’essere una persona che ha sempre dato valore alla riservatezza. Mi chiedo anche come saranno da adulti questi figli così legati alle confidenze con i genitori: riusciranno a staccarsi da un nido così accogliente, un nido che è una specie di sede staccata della propria anima, una gabbia dorata?
Ultimamente la figlia della mia amica ha intensificato le sue confidenze, e soprattutto la drammaticità e la confusione con cui le fa. Entra nella stanza dove si trova la madre e si dichiara “sopraffatta”. Usa proprio questa parola: “Mamma, mi sento sopraffatta”. Da cosa? Dalle emozioni, pare.
La figlia si spinge a dire, in un tentativo di sintesi intelligente, “Dev’essere l’adolescenza”.
La madre si preoccupa, questa faccenda del sentirsi sopraffatti le mette ansia, non le piace la parola, le sembra troppo enfatica. Ma comunque non può mostrare le proprie perplessità, deve ostentare equilibrio.
La figlia, dopo aver parlato confusamente, si siede su una poltrona e resta lì a sbollire il suo senso di oppressione. Poi se ne va. La madre ha provato a cercare di capire meglio, ma non è semplice, se prende la cosa troppo seriamente la figlia si incupisce e si mette a piangere, se prende la cosa con ironia la figlia sembra contenta, si alza, se ne va, ma torna poco dopo per sottolineare come il suo problema, in ogni caso, al di là delle battute, sia reale. Il problema del sentirsi sopraffatti da non si sa cosa.
Tutti sopraffatti
La mia amica dice di sentirsi ormai sopraffatta a sua volta, è una cosa contagiosa, si vede. Vorrebbe prendersi già una vacanza, e l’adolescenza è appena cominciata.
Provo a suggerirle di non farne un dramma, in fondo non conosco nessuno che abbia avuto un’adolescenza priva di senso di annientamento e disordine.
Anzi no, non è vero, conosco una persona che è arrivata alla maggiore età senza vedere una nuvola, col cielo sempre azzurro. Un amico al quale una volta chiesi che tipo fosse ai tempi del liceo, e lui mi rispose “In che senso”, e io “Be’, cosa facevi in quegli anni”, e lui “Studiavo”, e io “Ma a parte studiare”, e lui “Giocavo a calcio”, e io “Sì, ho capito, intendo dire se provavi emozioni, se ti sentivi in qualche modo”, e lui, dopo una lunga pausa, “Non saprei, non mi pare”. E così via, non ci fu modo di ricavare da lui uno spunto drammatico.
Ora che ci penso mi chiedo se questo amico oggi sia un serial killer. Ma non divaghiamo.
Qualche giorno fa ho letto un pensiero di Edmund White su Parigi. Secondo White vivere a Parigi significa essere costantemente convinti che la felicità sia dietro l’angolo, salvo poi rendersi conto, a distanza di anni, che il sentimento prevalente che abbiamo provato è la malinconia.
Le città grandi, vive, piene di opportunità fanno questo effetto: la vita, nella sua completezza, appare veramente a un passo da noi, ma non riusciamo mai ad afferrarla per davvero, ci sfugge, e solo più avanti ci renderemo conto che abbiamo provato una malinconia inevitabile, prepotente, per tutto il tempo.
Ecco, l’adolescenza forse somiglia a Parigi. I genitori possono solo osservare i propri figli mentre attraversano la fase parigina dell’esistenza.
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