C'è qualcosa di stonato nella richiesta del segretario generale della Cgil Maurizio Landini di essere ammesso alla cosiddetta cabina di regia del Pnrr, o Recovery Plan che dir si voglia. Venerdì scorso, intervistato dal Corriere della Sera, ha detto: «Chiediamo di istituire con il governo un sistema strutturale di confronto e negoziazione preventiva». Queste parole evocano la stagione della concertazione inaugurata nel 1993 dal governo Ciampi e durata poco. Erano tempi difficili, con crisi economica drammatica e il sistema politico travolto dall'inchiesta Mani Pulite. Toccò a un tecnico, Carlo Azeglio Ciampi, tenere insieme il paese. Il risultato fu l'accordo del 23 luglio 1993 che raffreddava la dinamica salariale introducendo, come parametro dei rinnovi contrattuali, l'inflazione programmata al posto dell'inflazione reale. La parola concertazione edulcora un momento drammatico di conflitto sociale e un'operazione di compressione dei salari. Gli accordi furono sottoposti a referendum tra i lavoratori, un terzo dei quali votò no, e Bruno Trentin si dimise dal vertice della Cgil poche ore dopo aver firmato il documento. Nel 2006 Romano Prodi, appena tornato a Palazzo Chigi, volle riproporre il balsamo della concertazione (cancellato nei precedenti cinque anni di governo Berlusconi), ma segnalò nel suo consueto modo sorridente e feroce come i tempi fossero cambiati: «Il rapporto con il Paese è essenziale. Anche se poi le decisioni le prende il governo». La concertazione è sempre servita a questo: il conflitto si raffredda prendendo atto dei rapporti di forza effettivi, senza scalciare troppo, ed è tutt’altro da «un crogiuolo di valori comuni», come notò Trentin nel suo diario.

Debolezza

Ecco perché la richiesta di Landini produce un’eco malinconica. Ha avuto senso che il governo chiamasse i sindacati a concertare quando erano più forti. Non ha senso che siano i sindacati a cercare l'invito a Palazzo Chigi  per dissimulare la propria debolezza. In questo secondo caso il loro parere verrà educatamente ascoltato (e Mario Draghi è persona educatissima) senza avere alcuna possibilità di imporsi. Landini queste cose le sa benissimo, naturalmente. Sei mesi fa, intervistato da Gad Lerner, aveva già delineato uno scenario difficile, ammettendo di non avere più la forza di imporre niente alla Confindustria e neppure di andare allo scontro: «Il mio problema è cercare degli accordi che siano in grado di migliorare la condizione delle persone che rappresento. Siamo arrivati alla conclusione che da soli non siamo in grado di migliorare la situazione». Perciò ha preferito chiedere, già all'allora governo Conte, l’ammissione alle riunioni sul Recovery Plan: «Dobbiamo rivendicare innanzitutto di essere soggetti coinvolti sul modo di spendere soldi». Landini riflette la debolezza dei sindacati italiani. Un funzionariato autoreferenziale non sa più chiedere forza ai lavoratori per restituirgliela nei momenti duri e farli sentire meno soli nelle fabbriche dove si muore sul lavoro. Landini potrebbe riproporre ciò che faceva alla guida della Fiom, ai tempi della cosiddetta Coalizione sociale, quando la sua popolarità tra i lavoratori faceva paura e gli veniva imputata come peccato di vanità. Invece si è come mimetizzato con l’incolore burocrazia confederale. Cerca di riconquistare il ruolo perduto dal sindacato andando in tv e agli incontri di Palazzo Chigi esibiti come certificato di esistenza in vita. Ma ciò richiede che i sindacati siano in grado non solo di dire cose ma anche di strapparne almeno una al governo Draghi. E non è detto che i lavoratori ci credano più.

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