Dopo l’Ucraina, vittima da oltre un anno e mezzo dell’aggressione russa che ha scatenato una guerra cruenta e crudele, ancora una volta s’infiamma il Vicino oriente. A innescare il nuovo incendio è stata l’inattesa e atroce offensiva terrorista di Hamas sul territorio israeliano, sferrata dalla Striscia di Gaza – con un numero altissimo di vittime civili, mai così tante dopo la Shoah – mentre si celebrava l’antichissima festa ebraica delle Capanne (Sukkot), molto sentita. E di nuovo la Santa sede si trova in difficoltà, per l’apparente equidistanza tra aggressori e aggrediti.
Troppo generico è così apparso il comunicato dei «patriarchi e dei capi delle chiese a Gerusalemme», dunque delle diverse confessioni cristiane. Un testo di «immorale ambiguità linguistica», secondo l’ambasciata di Israele presso la Santa sede. Che in modo sferzante lo ha collegato con un convegno in corso all’università Gregoriana sul significato dei documenti di Pio XII per i rapporti tra ebrei e cristiani: «Qualche decennio dopo, c’è chi non ha ancora imparato la lezione del recente oscuro passato».
A condannare l’attacco terroristico sono stati invece due cardinali di peso: il segretario di stato Pietro Parolin, intervenuto all’apertura del convegno in Gregoriana, e più chiaramente il francescano Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, appena rientrato in sede. Il comunicato – ha spiegato – è stato pubblicato «quando non si aveva ancora piena coscienza di quello che stava accadendo», ed «è chiaro che questa barbarie non ha alcuna giustificazione».
Durissima si è aggiunta la condanna di tutte le confessioni religiose presenti in Ucraina. L’organismo che le rappresenta ha così denunciato l’«attacco brutale e ingiustificato da parte dei militanti del movimento terroristico Hamas allo stato e al popolo di Israele» e lo ha esplicitamente accostato alla «drammatica situazione che l’Ucraina ha subito e sta tuttora subendo» per l’aggressione russa: civili uccisi, attacchi missilistici, ostaggi catturati.
L’attuale ventaglio di posizioni e la difficoltà delle confessioni cristiane e della Santa sede di fronte a un conflitto intermittente che risale a quasi un secolo fa si spiegano con la storia lunghissima e drammatica della patria ebraica sin dall’età ellenistica e romana. Alla cristianizzazione della «terra santa» di età costantiniana – ma già dal 170 meta di pellegrini – seguirono una nuova sacralizzazione di Gerusalemme, terza città islamica dopo Mecca e Medina, le crociate, il dominio ottomano, i mandati delle potenze occidentali, la nascita e la storia dello stato di Israele dopo la Shoah.
È una storia intricata e dolorosa quella della terra di Israele e della Palestina. Alle visioni religiose – variegate e affascinanti – dei tre monoteismi che si richiamano ad Abramo e guardano alla fine dei tempi sempre si sono intrecciati interessi politici, guerre, fondamentalismi distruttivi e intolleranti, tanto che i cristiani sono oggi ridotti ai minimi storici.
Non per caso il primo viaggio internazionale di un papa dopo l’età napoleonica fu nel 1964 a Gerusalemme e nei luoghi santi. Poi, dopo Montini sono tornati Wojtyła, Ratzinger, Bergoglio. Con visioni diverse ma alla ricerca di una coesistenza con gli altri cristiani, con gli ebrei – l’ebraismo è per san Paolo la «radice santa» – e con i fedeli musulmani. Coesistenza che appare oggi quasi impossibile ma che non deve rinunciare a domandare «pace per Gerusalemme», come cantano ebrei e cristiani in un salmo.
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