Dopo alcune perplessità su a chi assegnare il Nobel per la pace, e se assegnarlo, il premio è andato all’associazione dei sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. L’associazione ha senz’altro ha i suoi meriti. Ma è chiaro che si è voluto evitare di non consegnare il premio, come avvenuto altre volte in periodi di guerra.

Per chiarezza politica, avrebbero dovuto sostituire il Nobel per la pace con il Nobel per la guerra. In questo caso sarebbe stato di certo assegnato al nostro ministro della Difesa Guido Crosetto, che avrebbe visto premiata la sua politica guerrafondaia, e il suo sforzo di ripristino del principio della forza armata sulla forza della ragione.

Memoria storica vivente

Scrivo questo perché viene sottovalutata la valutazione di quanto conta, quanto pesa, la memoria storica vivente nelle decisioni della politica contingente e dunque nella costruzione di una prospettiva di futuro. Oggi si è allungato il periodo della capacità di pressione della memoria storica vivente nella formazione degli orientamenti politici, delle coscienze e dei sentimenti dell’opinione pubblica. La memoria storica vivente è un nutrimento che mette in diretto rapporto le generazioni attuali con ciò che è avvenuto, che ha prodotto effetti, e può produrne di futuri.

Appartengo a una generazione che, nel periodo difficile fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del Novecento, fu chiamata ad affrontare una storia densa. Per noi, in quei duri momenti, la memoria storica vivente era inutilizzabile: si trattava di generazioni che avevano creato le condizioni dei disastri della guerra e dei regimi nazifascisti, poi abbattuti dalla guerra e dalla democrazia.

La nostra generazione, oggi la più anziana ancora in vita, fu chiamata ad operare quando le generazioni fornite di memoria storica erano tre. Oggi sono cinque.

Questo produce un primo effetto senz’altro virtuoso: si è diffusa la coscienza e la conoscenza di fatti decisivi che hanno segnato la vita politica italiana, la costruzione di una democrazia difficile, il superamento di un regime autoritario.

Ma pone contemporaneamente anche il problema di una memoria storica falsificata. Quella che suggerisce che il sistema democratico costituzionale debba essere ammorbidito, diluito, superato, e alla fine possibilmente dimenticato.

Le larghe intese

È il caso della larghe intese. Negli scorsi giorni il presidente Casini ha proposto un “lodo” fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e la segretaria del principale partito di opposizione Elly Schlein a proposito dell’elezione dei giudici della Corte Costituzionale.

Cosa sono le larghe intese? La loro definizione appartiene al linguaggio della Prima Repubblica. Avevano, all’epoca, un significato virtuoso: si trattava di unire le forze dialetticamente diverse e anche opposte, ma che avevano una comune sostanza politica: avevano costruito la democrazia repubblicana contro il restauratore del vecchio sistema o di un sistema di avventuristico, oscillante tra le spinte del terrorismo di destra e di sinistra.

Oggi invece le grandi intese che vengono evocate, e persino consigliate, sono quelle fra la destra radicale e la democrazia. Con esse si prova a stemperare gli effetti dell’allungamento della memoria storica vivente, per far convergere verso soluzioni nuove, per legittimare la destra come forza politica di governo, la cui matrice nel Ventennio così diluisce, evapora: diventa il frutto non di deliberate scelte politiche antidemocratiche e anticostituzionali, ma di avvenimenti che si alternano casualmente, come fossero le stagioni dell’olio, un anno è buono, uno è cattivo, un anno è l’olio più amaro.

La lezione di Mattarella

L’ultima generazione vivente, la più anziana, può aiutare a avvertire che certe formule non possono essere rievocate falsificandole. È una testimonianza che non andrebbe sciupata. Perché oggi la formula larghe intese viene usata per annullare la densa storia delle rotture politiche del 1946 e 1947, gli anni difficili della Carta costituzionale, della costruzione del nuovo sistema democratico, e il rovesciamento di un sistema politico in modo democratico, senza persecuzioni, ma con nettezza e chiarezza.

Quella stessa nettezza e quella stessa chiarezza servono oggi: deve essere chiaro a tutti, soprattutto alle nuove generazioni, che queste false intese sono in realtà l’apertura di un cammino di restaurazione. Solo così riusciremo a capire il senso e il significato degli ammonimenti del più alto vertice dello Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che da tempo costantemente ricorda che ciò che di male è avvenuto nella storia del nostro paese, e che non è irripetibile.

Sciupare la memoria storica vivente sarebbe imperdonabile, sarebbe pagato dalle nuove generazioni con una restaurazione che ci porta dritto alla candidatura per il premio Nobel della guerra. Per non sciuparla bisogna stabilire una cesura profonda e irreversibile fra il sistema nato con il referendum popolare del 2 giugno 1946 e i regimi autoritari. Stagioni che non abbiano più a ripetersi.

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