- Nel suo discorso programmatico, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha accennato a una revisione profonda dell’Irpef «riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività».
- Quando in Italia si parla di riforma della tassazione, si pensa subito alla riduzione della pressione fiscale, un tema fisso nei programmi politici da più di vent’anni, senza risultati apprezzabili.
- Per i prossimi anni, la necessità di riportare, a partire almeno dal 2023, il saldo primario ai livelli pre-pandemia dovrebbe rendere chiaro che non c’è nessuno spazio per ridurre la pressione fiscale.
Tra due settimane (la scadenza prevista dalla legge di contabilità è il 10 aprile) il governo presenterà al Parlamento il Def (Documento di economia e finanza), dichiarando i suoi obiettivi programmatici da qui al 2024, quando – si deve presumere – saremo usciti da tempo dall’attuale emergenza sanitaria ed economica. Un appuntamento che quest’anno ha un rilievo particolare: il Def non esporrà soltanto la visione del governo sulle prospettive dell’economia e della finanza pubblica ma dovrà anche presentare con un buon grado di dettaglio le linee del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) da cui molto dipendono quelle stesse prospettive. Entro fine aprile, Def e Pnrr dovranno essere trasmessi alla Commissione europea.
Guardando alla finanza pubblica, il 2020 si è chiuso con un disavanzo al 9,5 per cento del Pil (era 1,6 per cento nel 2019) e un debito al 155,6 per cento (21 punti in più rispetto a un anno prima). Per il 2021 tutto lascia pensare che il disavanzo si collocherà su un livello non lontano da quello registrato nel 2020 e, di conseguenza, il rapporto tra debito pubblico e Pil aumenterà ancora portandosi intorno al 160 per cento.
Va tenuto conto che, grazie al programma di acquisti della Bce, la quota del debito detenuta dai mercati finanziari – quella su cui c’è un effettivo esborso di interessi – è molto più bassa, intorno al 115-120 per cento del Pil. Di fatto, la Banca centrale ha (opportunamente) sterilizzato il nuovo debito associato alla pandemia e continuerà a farlo per tutto il 2021.
E’, tuttavia, improbabile che la politica monetaria rimanga in futuro così accomodante. Si può anche immaginare che i titoli in scadenza verranno riacquistati e che i tassi di interessi resteranno bassi ma non che eventuali nuovi debiti possano ancora venire assorbiti. Insomma, stabilizzazione e riduzione del debito pubblico torneranno ad essere un compito nazionale.
Aspettative realistiche
L’aritmetica del rapporto debito/Pil ci dice che occorre che il tasso di crescita dell’economia sia maggiore del tasso di interesse e/o che il saldo primario del bilancio (il saldo al netto della spesa per interessi) sia positivo. Nel triennio 2017-2019 la prima condizione non è mai stata soddisfatta (il costo del debito è sempre stato superiore di circa un punto al tasso di crescita del Pil) mentre il saldo primario è stato sempre positivo (per circa un punto e mezzo).
Ciò ha consentito di mantenere costante il rapporto tra debito e Pil (134,8 a fine 2016 e 134,6 a fine 2019) ma non di farlo diminuire. Nel 2020 crescita negativa e disavanzo primario al 6 per cento del Pil hanno prodotto il picco a 155,6.
Superare l’anomalia italiana (un caso unico nel panorama internazionale) di un’economia che cresce a un tasso inferiore al costo del debito pubblico, nonostante tassi di interessi particolarmente bassi, è compito affidato, negli auspici di tutti, al Pnrr, agli interventi (in particolare investimenti) decisi nel piano e alle riforme che lo accompagneranno. Tra queste ultime vi è la riforma del fisco. Non è chiaro quali siano le intenzioni del governo.
Nel suo discorso programmatico, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha accennato a una revisione profonda dell’Irpef «riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività». Ma ha premesso che «non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta» e che le riforme della tassazione devono essere affidate ad esperti, citando non solo l’esempio della Danimarca (una Commissione di esperti che nel 2008 stilò un piano che prevedeva, tra l’altro, un taglio della pressione fiscale di 2 punti) ma anche quello del nostro paese: il lavoro delle Commissioni Cosciani e Visentini alla base della riforma tributaria del 1973 (per completezza e per farsi un’idea dei tempi che allora furono necessari, va ricordato che la Commissione Cosciani consegnò il suo rapporto nel 1963 e che, dopo alterne vicende, la legge delega fu approvata nel 1971).
Draghi ha infine concluso che un rafforzato impegno nel contrasto dell’evasione fiscale sarà funzionale al perseguimento degli obiettivi della riforma.
Ridurre la pressione fiscale?
Quando in Italia si parla di riforma della tassazione, si pensa subito alla riduzione della pressione fiscale, un tema fisso nei programmi politici da più di vent’anni, senza risultati apprezzabili (la pressione fiscale era al 42,4 per cento nel 1998, è al 42,6 per cento nel 2019) se non la diffusione di trattamenti speciali per varie categorie e la balcanizzazione del sistema tributario.
Per i prossimi anni, la necessità di riportare, a partire almeno dal 2023, il saldo primario ai livelli pre-pandemia dovrebbe rendere chiaro che non c’è nessuno spazio per ridurre la pressione fiscale.
Ci sarebbe spazio per tagli alle imposte (il paradosso è solo apparente), ovvero riduzioni delle aliquote, se si contrastasse seriamente l’evasione. Ma anche questo è da decenni un tema fisso dei programmi politici, per lo meno di una parte. Dal lato della spesa, è evidente che ci saranno pressioni su voci come sanità, istruzione, personale che potranno essere accomodate tenendo sotto controllo altre voci (come le pensioni, non rinnovando quota 100).
Davvero difficile immaginare una riduzione strutturale della spesa totale. Per evitare fughe in avanti pericolose, sarebbe bene riconoscere chiaramente il quadro dei conti che abbiamo di fronte, incompatibile con riduzioni del gettito totale.
Quindi nessuna riforma tributaria? No, tutt’altro.
Si può rendere il sistema più favorevole alla crescita, redistribuendo il carico fiscale, sgravando il lavoro e spostando il prelievo verso consumi e rendite. In buona parte ciò coincide con l’eliminazione dei trattamenti di favore (ad esempio, accorpando le aliquote Iva, rivedendo la cedolare secca sugli affitti e il sistema delle detrazioni legate all’edilizia).
Anche il contrasto dell’evasione e in genere dell’economia sommersa andrebbe visto nella stessa ottica: eliminare il sussidio implicito a segmenti dell’economia che contribuiscono a determinare l’anomalia italiana, il nostro divario negativo di crescita. Tutto ciò, sempre a parità di gettito.
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