- Il modello Benetton (una famiglia che controlla con poco capitale tante attività quotate grazie a una catena di holding e molto debito) ha fatto il suo tempo: molte di queste strutture proprietarie sono infatti sparite.
- Fanno sorridere le voci che vogliono il governo attento al rischio del passaggio di asset strategici allo straniero: Abertis è spagnola con attività quasi tutte fuori dall’Italia.
- Da difendere ci sono solo gli interessi dei Benetton, quegli stessi che il governo ha spossessato di Aspi dopo il crollo del ponte Morandi, giudicandoli concessionari inaffidabili.
L’offerta dei fondi Brookfield e GlP per la società Atlantia, controllata col 30 per cento da Edizione dei Benetton, evidenzia la debolezza del gruppo e della sua struttura societaria. Atlantia è una holding che però assomiglia più a un fondo infrastrutturale: un insieme di partecipazioni in società con sinergie risibili in quanto gestiscono infrastrutture in concessione, vista la loro natura di monopoli naturali.
Tra la gestione di un’autostrada in Brasile e quella degli Aeroporti di Roma non c’è infatti alcuna relazione perché il valore di ciascuna attività sta nella sua concessione, che dipende dal potere politico e dalle autorità di regolamentazione locali.
I fondi infrastrutturali prediligono le concessioni per la prevedibilità e stabilità dei cash flow che garantiscono: una caratteristica che attrae gli investitori nel fondo, tipicamente istituzioni previdenziali e a lungo termine. Questo spiega le enormi risorse che i fondi infrastrutturali riescono a raccogliere.
Spesso questi fondi preferiscono le partecipazioni di minoranza, lasciando il controllo a un socio locale che gestisca i rapporti con le autorità del paese: per esempio come i fondi Blackstone e Macquire soci con Cassa Depositi e Prestiti in Autostrade per l’Italia (Aspi, acquisita da Atlantia); Macquire in Open Fiber; Ardian in Astm (autostrade del gruppo Gavio); o Kkkr in FiberCop.
Anche le società di costruzione e ingegneria investono in concessioni di infrastrutture per stabilizzare la propria struttura finanziaria, altrimenti esposta alle incertezze, complessità ed elevata intensità di capitale intrinseche del settore. Per esempio, la gestione di infrastrutture costituisce il 30 per cento dei ricavi della leader in Europa, la francese Vinci, ma il 60 del suo risultato operativo.
Chi comanda su Atlantia
Dopo l’uscita da Aspi, la principale partecipazione di Atlantia (circa 70 per cento dei ricavi) è diventata la spagnola Abertis, il primo operatore autostradale in Spagna e Sud America. Una partecipazione controllata con il 50 per cento più una azione, assieme all’ Acs di Florentino Perez come risultato dell’intricato accordo di quattro anni fa (che ha previsto l’ingresso di Atlantia nella Hochtief, controllata da Acs, a sua volta socio di Abertis) raggiunto per evitare una guerra tra i due a colpi di Opa.
L’equilibrio raggiunto è però precario perché Abertis è una concessionaria spagnola, e si sa che i governi preferiscono dare le concessioni a società controllate da imprese nazionali (forse per questo Abertis a controllo italiano ha appena perso una concessione in Spagna).
Acs, inoltre, e la sua controllata Hochtief, sono imprese di costruzioni e in quanto tale beneficerebbero dei cash flow stabili di Abertis, che invece sono oggi consolidati in Atlantia. Non sorprende quindi che Florentino Perez, una volta che Atlantia ha perso Aspi, abbia colto l’opportunità per puntare al controllo di Abertis riprendendo la contesa di qualche anno fa.
Si è così alleato con i due fondi che hanno le risorse finanziarie per rilevare tutta Atlantia dai Benetton, per poi girare Abertis a Perez.
La struttura di holding di Atlantia e di Edizione facilitano poi un’offerta esterna che porti alla scissione delle attività.
Atlantia, come tutte le holding e i conglomerati, vale infatti meno della somma delle sue parti rendendo così convenienti le offerte anche a forte premio sui valori di mercato, e la successiva scissione delle attività vista la mancanza di sinergie tra le partecipazioni.
Edizione è una pura holding di controllo, quindi limitata finanziariamente dalla dimensione del suo capitale e dalla volontà di non diluirsi. Infine, anche dopo la vendita di Aspi, Atlantia rimane fortemente indebitata perché a fronte degli 8 miliardi incassati ha però perso il margine operativo di Aspi, e deve consolidare il debito di Abertis; così, si stima che nel 2023 avrà un debito pari a 5,8 volte il margine operativo a fronte del 2,3 medio delle maggiori società quotate europee con concessioni. Acs, al contrario, ha 2 miliardi di liquidità disponibile.
I Benetton non hanno pertanto grandi margini di manovra per difendere il controllo. Possono sono allearsi a propria volta con un fondo, come pare facciano con Blackstone, per finanziare un delisting atto a fermare l’offerta di Perez. Ma cosa vogliano poi fare con Atlantia non è chiaro.
Dubito fortemente che i fondi che si contrappongono siano intenzionati a farsi la guerra a colpi di Opa, potenzialmente rovinosa per che la vince; più facile che si vada verso un negoziato per un accordo, come quattro anni fa, ma con i Benetton in una posizione di maggiore debolezza.
Anche perché Edizione è oggi nel mezzo di un passaggio generazionale, un momento di debolezza tipico delle aziende italiane: per quanto la famiglia abbia appena identificato in Alessandro Benetton il capo azienda, Edizione è interamente controllata dalla famiglia, col capitale suddiviso equamente tra i suoi quattro rami, non certo la governance ottimale di un grande gruppo, specie in questi frangenti.
La fine del modello Benetton
Il modello Benetton (una famiglia che controlla con poco capitale tante attività quotate grazie a una catena di holding e molto debito) ha fatto il suo tempo: molte di queste strutture proprietarie sono infatti sparite. E fanno sorridere le voci che vogliono il Governo attento al rischio del passaggio di asset strategici allo straniero: Abertis è spagnola con attività quasi tutte fuori dall’Italia; da difendere ci sono solo gli interessi dei Benetton, quegli stessi che il governo ha spossessato di Aspi dopo il crollo del ponte Morandi, giudicandoli concessionari inaffidabili.
La vicenda in fondo è un po’ lo specchio del nostro capitalismo. Il gruppo Benetton è stato fondato nel 1965, pochi mesi dopo che un allenatore dell’Università dell’Oregon ha fondato la Nike. Entrambe le società furono grandi innovatrici nel settore dell’abbigliamento.
Nike si quota nel 1980, Benetton sei anni più tardi. Ma mentre la prima usa la quotazione per crescere nel suo business originale fino a diventare una multinazionale da 190 miliardi di euro, con i fondatori e manager che la controllano con appena il 3 per cento (in virtù delle loro capacità riconosciute dagli investitori), i Benetton hanno virato sul business delle concessioni dai ricchi cash flow, di cui mantengono il controllo con holding e debito; e la vecchia azienda di abbigliamento in difficoltà finanziarie viene ritirata dalla Borsa nel 2012 e oggi sopravvive come cimelio storico.
Anche negli Stati Uniti le aziende nascono a conduzione familiare; ma poi si quotano, privilegiando la crescita al controllo.
Ma sarebbe stato anche possibile quotarsi e crescere senza rinnegare il proprio dna, pur mantenendo il controllo. Proprio nel settore del fast fashion inventato dai Benetton, lo ha fatto Amancio Ortega Gaona che controlla Inditex (nota come Zara) col 59 per cento, da lui fondata nel 1963 e che oggi in Borsa vale 62 miliardi; o la svedese H&M, controllata col 45 per cento dal figlio del fondatore, Stefan Persson, costituita nel 1947, e che oggi vale 21 miliardi. Mentre Atlantia, anche dopo l’incasso dalla vendita di Aspi e l’offerta dei fondi, ne vale appena 18: ne valeva la pena?
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