- Secondo la maggioranza bisogna combattere la cancellazione della “madre”, ma solo quando si parla di omogenitorialità maschile. Se invece parliamo di due donne, una madre che vuole essere riconosciuta come madre può essere invisibilizzata o cancellata.
- Basterebbero questi pochi elementi per afferrare il significato del conflitto che si sta svolgendo intorno ai temi della procreazione e del riconoscimento (o disconoscimento) delle famiglie “arcobaleno”.
- Ciò che si produce è una gerarchia di valore, non solo tra famiglie, ma anche tra bambini. Punendo i figli di coppie omosessuali sia sul piano giuridico sia con l’aumento dello stigma sociale nei loro confronti.
Immaginate di essere un bambino o una bambina di sei anni, che da un giorno all’altro perde il diritto di chiamare “mamma” quella che fino a quel momento è stata sua madre, di fatto e di diritto. Una delle sue due madri, per la precisione. Perché quel che accade a Padova è che la Procura ha impugnato 33 atti di registrazione emessi a partire dal 2017 per i figli di due donne nati con procreazione assistita.
Se il giudice dovesse confermare la cancellazione del “genitore non biologico” dall’atto di nascita, i bambini interessati perderebbero non solo uno dei cognomi, ma anche il diritto di contare sulla responsabilità legale della seconda madre, per esempio in materie che riguardano la sua salute, istruzione, mobilità.
Questo avviene a pochi mesi dalla circolare del ministro Matteo Piantedosi che ha ordinato una stretta sulle registrazioni delle famiglie omogenitoriali. E nello stesso giorno in cui, alla Camera, si discuteva di istituire il “reato universale” di surrogazione di maternità.
Un uso strumentale
Per l’ironia amara di cui solo la politica sa dare prova, l’argomento forte del partito di Giorgia Meloni contro l’utero in affitto è che il bambino di una coppia di due padri non potrà dire “mamma” (delle coppie eteosessuali che ci ricorrono poco si parla). Dunque bisogna combattere la cancellazione della “madre”, ma solo quando si parla di omogenitorialità maschile. Se invece parliamo di una coppia di donne, una madre che vuole essere riconosciuta come madre può essere invisibilizzata, o cancellata dove già registrata.
Basterebbero questi pochi elementi per afferrare il significato del conflitto che si sta svolgendo intorno ai temi della procreazione e del riconoscimento (o disconoscimento) delle famiglie “arcobaleno”.
Innanzitutto, va notato l’uso strumentale che la destra fa del tema della gestazione per altri (Gpa) o maternità surrogata: dietro l’obiettivo “umanitario” della protezione delle donne, delle madri, si nasconde l’intento chiarissimo di colpire le famiglie formate da due uomini.
Contro le famiglie
Ma non basta. Perché il riferimento ossessivo a quello che viene descritto come un “abominio” ha finito per trasformare questo argomento in arma contro tutte le famiglie omogenitoriali, anche quelle formate da due donne, che non ricorrono alla Gpa. Svelando quindi l’obiettivo ultimo di incidere sulle opportunità di riconoscimento non solo giuridiche, ma anche politiche e culturali, dei modelli che si discostano dalla norma eterosessuale.
Con ciò si produce una gerarchia di valore, non solo tra famiglie, ma anche tra bambini. Punendo i figli di coppie omosessuali sia sul piano giuridico sia con l’aumento dello stigma sociale nei loro confronti.
L’ultimo aspetto, forse il più grave in questa storia, è che l’effetto combinato dell’azione del governo e della magistratura mostra come diritti essenziali alla definizione dell’identità personale possano essere disponibili all’uso e abuso da parte del potere politico e, in assenza di protezioni di legge, a quello giudiziario. Non ne va solo dei diritti di alcuni, ma dei diritti di tutti e tutte.
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