A fronte di una prospettiva di pacificazione tra Israele e Arabia Saudita è emerso il ruolo dell’Iran che soffia sul fuoco dei risentimenti palestinesi e dell’islam sciita. E la nuova minaccia alla sicurezza globale non può che fare gioco alla guerra di Putin in Ucraina e al suo disegno imperiale
Mentre scriviamo gli ultimi resoconti sull’eccidio di Gaza parlano di oltre 700 uccisioni di israeliani, la maggior parte civili, e di 2.500 feriti. La popolazione di Israele è stata colpita stavolta in maniera sistematica e organizzata non solo da attacchi missilistici ma pure da incursioni di gruppi di miliziani che al grido di “Allah è grande” hanno replicato le azioni proditorie dei tagliagole dell’Isis, non risparmiando anche inermi nuclei familiari da violenze indicibili e dalla cattura di ostaggi.
Non c’è alcun dubbio che l’ultimo attacco di Hamas vada inquadrato non certo come un legittimo atto di guerra in self-defence, ma come una aggressione terroristica che non può trovare alcuna giustificazione negli oltre cinquanta anni di sofferenze del popolo palestinese o nel suo diritto a vedere realizzata l’aspirazione all’autodeterminazione.
Tuttavia come in ogni fase di escalation del conflitto israelo-palestinese un’analisi compiuta deve tenere conto della complessità degli scenari, in cui le responsabilità per stragi di civili del recente passato vanno ricondotte anche ad Israele, e le incomprensioni e le pulsioni verso le derive più estremizzate non possono essere considerate solo pendenti da una parte.
Così come non può essere sottaciuto che da sempre le crisi del medio oriente sono state anche il frutto del “grande gioco” delle sfide egemoniche in cui si sono cimentati gli imperi coloniali, le grandi potenze della “guerra fredda” e oggi i nuovi attori che mirano ad emergere, alcuni proprio soffiando sul fuoco di antichi risentimenti e dello scontro ideologico e religioso.
Lo scenario israeliano
In questa prospettiva la guerra terroristica di Hamas va inquadrata ricostruendo un filo rosso attorno ad alcuni snodi cruciali più recenti, che meritano ciascuno qualche riflessione. Il mese scorso gli analisti sono rimasti sorpresi quando alla assemblea generale delle Nazioni unite il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato il confronto di due mappe.
La prima ha raffigurato l’Israele isolato del 1948, la seconda ha presentato una regione pacificata con i 6 paesi che hanno normalizzato i rapporti con lo stato ebraico: Egitto, Arabia Saudita e anche i quattro che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo nel 2020, Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e Sudan.
Nelle mappe non è comparsa una qualunque rappresentazione delle entità palestinesi, inclusa l’Autorità nazionale palestinese, e se a qualcuno è sembrata solo una semplificazione sono subito giunte nette le dichiarazioni del leader israeliano: «I palestinesi rappresentano solo il 2 per cento della popolazione, ad essi non dovrebbe essere riconosciuto alcun diritto di veto», riferendosi al percorso intrapreso con la pacificazione tra Israele e Arabia Saudita.
Il fatto è che lo scenario che più volte la comunità internazionale ha cercato di promuovere secondo il modello “Una pace, due stati” sembra essere stato allontanato dagli ultimi programmi di Israele, specie dopo che l’ultimo governo di Netanyahu ha potuto formarsi solo con il sostegno delle componenti più radicali e ultranazionaliste di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.
Oltre alle proteste dei giovani israeliani moderati ci sono state persino quelle dei riservisti – una componente sociale fondamentale nel sistema israeliano – che hanno denunciato una deriva antidemocratica per l’iniziativa del governo di ricondurre la Corte suprema sotto il controllo politico.
Queste circostanze sono ora viste alla base della paralisi istituzionale che sarebbe all’origine della mancata previsione dell’attacco e dell’inefficacia di tutto l’apparato di difesa, inclusi il sistema anti aereo “Iron Dome” e quello delle intercettazioni “Pegasus” finora ritenuti avanzatissimi.
Strategie “tossiche”
Hamas dal canto suo ha ritenuto che fosse giunto il momento per riprendere la leadership del jihadismo palestinese che nel frattempo si era frammentato in tante compagini. Ha quindi approfittato della crisi dell’Autorità nazionale palestinese e ha pensato bene di avvalersi degli armamenti e della rete ideologica del principale attore regionale rivale di Israele: l’Iran.
Dietro Hamas c’è senza dubbio il disegno di Teheran di alimentare il conflitto non solo nella striscia di Gaza ma in tutta l’area, probabilmente mirando a coinvolgere i gruppi jihadisti della Cisgiordania, ma anche gli Hezbollah libanesi e forse pure gli altri miliziani siriani e iracheni.
L’obiettivo dell’Iran è quello di sfruttare i risentimenti dei palestinesi e di molti arabi specie di matrice sciita per imporsi come attore decisivo nell’area regionale, puntando alla distruzione dello stato ebraico e ad inasprire la guerra ibrida contro gli Stati Uniti, principali sostenitori dei negoziati tra Israele e Arabia Saudita, anche questa nemica storica dell’Iran.
Nello scenario non vanno dimenticati la guerra in Ucraina e il disegno imperiale di Putin: a Mosca non può che far gioco il disordine globale e l’apertura di un altro fronte che minaccia l’occidente.
Il ruolo dell’Unione europea
Il medio oriente torna ad essere un banco di prova perché nella comunità internazionale emergano attori “responsabili” capaci di reagire alla nuova jihad.
Ma soprattutto occorrerà che ricompongano le condizioni per imporre una pace regionale, cominciando con l’affermare i princìpi della Carta delle Nazioni unite che impongono la via diplomatica per la risoluzione delle controversie internazionali.
Sarà anche il caso che l’Unione europea stavolta si ricompatti attorno al tema della sicurezza globale e assuma in concreto una iniziativa diplomatica. Non limitandosi a fare da comparsa, o ad agire in ordine sparso.
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