Si torna a parlare del tema del lavoro povero nel nostro paese. I dati non sono confortanti e ancora non sappiamo con certezza quanto la pandemia abbia aggravato la situazione. Uno dei nodi più critici è la presenza di ampie fette in cui il mercato del lavoro si dipana in una complessa maglia di rapporti irregolari.

Tra i settori in cui il lavoro nero è più presente, e che contribuisce a buona parte del lavoro povero in Italia, c’è quello dei servizi domiciliari, di assistenza sanitaria o di supporto alle famiglie nella cura dei figli.

Istat stima in oltre un milione il numero di lavoratori irregolari nel settore, circa un terzo del lavoro irregolare italiano. E Inps registra circa 800 mila lavoratori domestici regolarmente assunti.

Questo porta a stimare che la maggioranza di questi lavoratori sia inserita in un (non)mercato del lavoro parallelo caratterizzato da assenza di tutele di tipo salariale, contributivo, di normativa sulla sicurezza su lavoro, di continuità lavorativa e molto altro.

Quello della cura e dell’assistenza domiciliare  è un settore che si espanderà nei prossimi anni a causa dell’invecchiamento della popolazione.

Parlando quindi di lavoro povero, questo ampio e variegato settore dovrebbe essere uno dei primi a richiedere interventi. Anche perché oltre al tema della regolarità contrattuale e salariale porta con sé tutte le conseguenze negative di un settore che, proprio a causa di questo, fatica a professionalizzarsi a fronte di esigenze di cura sempre più sfidanti.

Un mercato del lavoro inesistente e irregolare quindi, e un mercato povero non solo economicamente ma anche di competenze e quindi inefficiente da molteplici punti di vista. Le cause sociali e culturali della presenza di una così ampia quota di lavoratori in nero sono molteplici, ma è più interessante provare ad avanzare alcune proposte di intervento in termini di efficaci politiche del lavoro volte all’emersione dell’irregolarità e alla professionalizzazione del settore.

Da questo punto di vista sono interessanti alcuni spunti comparati, come ad esempio il Cesu francese e i titres-service in Belgio. Se prendiamo i primi sono una forma di voucher che le famiglie possono utilizzare sia direttamente con i lavoratori sia passando (strada obbligata per l’equivalente belga) da agenzie di servizi che assumono i lavoratori stessi.

L’elemento incentivante però è nel forte beneficio fiscale che copre oltre la metà di quanto versato al lavoratore, contribuendo così a corrispondere una cifra dignitosa a quest’ultimo e ad essere sostenibile per le famiglie.

Questione di costi

Sappiamo infatti che quello del costo del lavoro potrebbe essere un ostacolo per nuclei famigliari che pur a fronte di un bisogno di supporto domiciliare che magari non è garantito dallo Stato, non hanno le risorse sufficienti per fronteggiarlo.

È probabile che uno dei motivi per cui in Italia il Libretto famiglia, lo strumento individuato per la regolarizzazione dei lavoratori domestici, è usato in media da meno di 10 mila persone al mese sia proprio legato ai costi. E una politica di incentivazione della regolarizzazione del lavoro domestico, che si basi su una forte incentivazione da parte dello Stato, sembra essere giustificabile.

Da un lato il fatto che lo Stato stesso risparmia risorse a fronte dell’utilizzo di queste forme di welfare familiare, risorse che in parte possono essere investite per favorirlo all’interno di un quadro di tutela per i lavoratori. Dall’altro il fatto che un mercato maturo dell’assistenza domiciliare riduce le esternalità negative che si scaricherebbero poi sui servizi sanitari in caso di mala gestione del supporto domestico.

Sarebbe anche un segnale di considerazione sociale e politica per lavori che producono un valore inestimabile, ossia il benessere delle persone, la loro cura, il loro sostegno, sebbene sfugga ai freddi calcoli sulla produttività. La pandemia dovrebbe averci insegnato qualcosa a riguardo.

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