- La battaglia con l’inflazione si avvia a conclusione; il processo non sarà rapido ma ormai sembra definitivamente avviato.
- La narrazione convenzionale per cui occorreva alzare i tassi per evitare spirali pressi-salari è smentita dai fatti
- Ora si possono valutare i potenziali danni a medio termine della strategia restrittiva delle banche centrali.
La battaglia con l’inflazione sembra avviarsi a conclusione, sia negli Stati Uniti che nella zona euro. I tassi di inflazione sono ancora molto elevati, e non scenderanno molto rapidamente.
La fiammata dei prezzi di energia e alimentari, durata più di un anno dalla metà del 2021 fino alla fine dell’estate scorsa, si è lentamente diffusa nell’economia.
L’energia, infatti, è un input di produzione nei processi industriali e in molti servizi, che hanno quasi tutti visto i loro prezzi aumentare. Negli ultimi mesi i prezzi dell’energia sono tornati sui livelli precedenti al conflitto (anche se i mercati sono ancora molto volatili) e il tasso di inflazione prima si è stabilizzato e poi è leggermente diminuito.
L’inflazione di fondo, quella che non comprende i prezzi dell’energia e degli alimentari, non ha ancora iniziato a calare, come il mare che rimane agitato dopo la tempesta; ma secondo analisti e istituti di previsione, sempre assumendo che questi tempi incerti non ci portino altri shock, è solo questione di tempo prima che questo accada
Il Diario Europeo ha più volte contestato la narrazione per cui il rischio di una spirale prezzi-salari avrebbe reso necessaria, qualunque fosse la natura dello shock (domanda o offerta), una politica monetaria restrittiva; questo per evitare che l’inflazione finisse fuori controllo e che potesse in futuro essere fermata solo con draconiane misure di restrizione (monetaria ma non solo) e con una violenta recessione, come dovette fare la banca centrale americana con Paul Volcker dopo quelli che secondo la narrazione furono i folli anni Settanta.
L’inflazione temporanea
La narrazione, lo abbiamo ripetuto più volte, è stata smentita dai fatti. Intanto perché, a conferma del fatto che si trattava di un’inflazione temporanea, sia pur più persistente del previsto (a causa tra l’altro dell’invasione dell’Ucraina), la tendenza ha cominciato a invertirsi ben prima che si facessero sentire gli effetti della restrizione monetaria, che di solito si manifestano dopo 12-18 mesi almeno.
Poi, perché di spirale prezzi-salari non si è vista nemmeno l’ombra, essendo i salari reali, al netto dell’inflazione, crollati quasi ovunque (lo stesso non può essere detto per i profitti).
Insomma, la restrizione monetaria non sarebbe stata necessaria e purtroppo, quando dispiegherà pienamente i suoi effetti sull’economia, rischieremo di pagarne il prezzo.
In primo luogo, per il motivo più evidente, gli effetti diretti sull’attività economica, quegli stessi effetti che sarebbero, secondo la narrazione, necessari per ridurre l’inflazione: raffreddare l’economia rendendo più costosi gli investimenti per le imprese e i mutui per le famiglie.
Ma la restrizione monetaria, nella situazione attuale e con un’inflazione eterogenea a seconda di beni e settori, avrà controindicazioni che vanno ben al di là del semplice impatto macroeconomico sul Pil.
Pochi, maledetti e subito
L’aumento dei tassi potrebbe esacerbare l’eterogeneità dei tassi d’inflazione settoriali. Negli anni Settanta Edmund Phelps e Sidney Winter notarono come in mercati non perfettamente competitivi le imprese possano tenere bassi i prezzi, per paura di perdere i clienti.
Se i tassi di interesse o l’incertezza aumentano, la probabilità di riuscire a fidelizzare i clienti si riduce, e diviene ottimale aumentare il prezzo, una sorta di strategia del tipo “pochi, maledetti e subito”.
Questo meccanismo (che spiega l’incremento dei profitti in alcuni settori) implica, oggi, che l’aumento dei tassi potrebbe portare a tassi di inflazione più elevati nei settori meno concorrenziali, aumentando così l’eterogeneità e contrastando l’impatto deflattivo della politica monetaria.
L’aumento dei tassi di interesse, aumentando il costo del capitale, disincentiva l’investimento (che sia pubblico o privato); vale a dire, rende più complicato utilizzare lo strumento principale che a livello settoriale può aumentare l’offerta e ridurre i colli di bottiglia che causano l’aumento dei prezzi.
Ma non è tutto; di solito, i forti squilibri settoriali si riassorbono in parte, tramite riallocazioni della domanda e della produzione tra settori in crisi e settori in espansione.
La restrizione monetaria, comprimendo la domanda globale, rende più difficile questa ricomposizione: i lavoratori costretti ad abbandonare un settore in crisi hanno più difficoltà a trovare lavoro altrove.
Questo è un argomento simile a quello che sviluppò l’economista di Harvard Dani Rodrik per criticare la scelta di imporre alla Grecia e agli altri paesi in crisi l’accoppiata austerità più riforme: in un contesto di crescita stagnante, gli effetti positivi sulla produttività avrebbero potuto non materializzarsi.
La restrizione monetaria potrebbe rivelarsi controproducente per assorbire gli shock di offerta che sono alla base dell’inflazione di questo periodo.
Il quadro si fa ancora più fosco, poi, se si pensa che la ricomposizione settoriale e l’investimento dovrebbero essere incentivati, e non ostacolati, se si desidera che le nostre economie si avviino con decisione sul cammino della transizione ecologica.
Effetti distributivi indesiderati
Infine, l’infelice scelta di aumentare i tassi avrà nel medio periodo effetti perniciosi sulla distribuzione del reddito.
È ovvio che, se i problemi da lato dell’offerta non sono risolti dalla restrizione monetaria, ma anzi potrebbero potenzialmente essere esacerbati, il costo in termini di crescita sarà ancora maggiore.
Ora, la contrazione (o la stagnazione) dell’attività economica e dell’occupazione in genere portano con sé un aumento delle disuguaglianze, colpendo maggiormente le classi più sfavorite e i lavoratori con meno qualifiche.
Disuguaglianza che potrebbe aumentare anche perché l’aumento dei tassi implica un più alto onere del debito e quindi una perdita di reddito per famiglie (e imprese) più indebitate, generalmente quelle più modeste.
Insomma, l’inflazione potrebbe presto rivelarsi un problema superato.
Ma l’errore di trascurare le sue caratteristiche settoriali e di affrontarla con una restrizione monetaria che colpisce tutti indiscriminatamente è sempre più incomprensibile e somiglia alla strategia di utilizzare un Canadair per spegnere un fornello. I costi potremmo pagarli ancora a lungo.
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