Non sono tante le persone di cui si possa dire, come si deve di lui, che siamo migliori per quel che ha fatto, detto, scritto
È morto un grande italiano, Eugenio Scalfari; controverso per la nettezza delle sue posizioni, certo uomo di potere, grande tuttavia. Non sono tante le persone di cui si possa dire, come si deve di lui, che siamo migliori per quel che ha fatto, detto, scritto. Era altezzoso, tranciante, scostante spesso, legato ad una cerchia ristretta di grandi personalità, che avevano un’alta opinione di sé stessi; ciò poteva infastidire ma la competenza e il rigore di quegli italiani ci ha restituito alla cultura europea, da cui il fascismo ci aveva separati per vent’anni.
L’Italia è migliore per le battaglie, molte perse, ma nessuna passata invano, che Scalfari ha condotto o cui ha partecipato convinto. Quelle del Mondo di Mario Pannunzio, anche con Arrigo Benedetti, formando con loro un trio che Sergio Saviane nel suo gradevole L’Espresso desnudo definì “i tonni”, per il modo maestoso con cui solcavano, simili a tonni nel mare, la redazione.
Allegro li sfotteva Saviane, ma ne conosceva il valore. Pensiamo alla battaglia dell’Espresso su “Capitale corrotta nazione infetta”, affidata al graffiante Manlio Cancogni; al costante lavoro teso a rimuovere la patina di angusto perbenismo che per tanti anni ha incapsulato, come bloccandola, la crescita morale e civile del paese.
Aperture
Quegli anni li ho vissuti sbirciando dapprima imberbe il Mondo di Pannunzio, che in casa girava e di cui conservo una minima collezione, poi con più capacità di comprensione. Ricordo il governo Tambroni e i moti di Reggio Emilia. Penso alle battaglie sul divorzio prima, e sull’aborto poi, in cui fu vicinissimo a Marco Pannella che in quella memorabile temperie culturale visse la stagione migliore.
Penso all’apertura che Scalfari ha fatto prima ai socialisti quando, ancora legati al Fronte popolare, mostravano un progressivo distacco dal Pci allora ancora troppo legato a Mosca; ha aperto poi ai comunisti di Enrico Berlinguer, cui era molto prossimo intellettualmente, pur nella distanza umana fra un libertino come Scalfari e un sardo frugale come Berlinguer, dal carattere mite, ma che da fuori pareva aspro, avvolto come era nella sua sarditudine.
Le battaglie
Tanto è cambiato per Scalfari, e per il suo nascente giornale Repubblica, con l’assassinio degli agenti di scorta ad Aldo Moro, poi con la sua uccisione a freddo da parte delle Brigate rosse (Br); libero, Moro poteva mutare radicalmente, in direzioni imprevedibili, il paese che attendeva il berlingueriano compromesso storico. L’inaudita violenza dell’azione lo ha fermato. Scalfari non ha voluto concessioni alle Br, era per la fermezza, sola linea allora apparsa a tanti di noi all’altezza di un grande paese.
Ora girano ricostruzioni ardite su quegli anni, si allude all’interesse degli Stati Uniti a fermare l’arrivo dei comunisti al governo. A me e a tanti altri allora non è parsa questa la realtà. È sembrato doveroso difendere lo stato e per tale linea l’anno dopo Guido Rossa, alpinista, comunista, anti fascista, è stato ucciso da chi si dichiarava comunista agendo però da squadrista.
Anche per Rossa il Pci doveva rompere con Mosca, per spendere i voti che prendeva, anziché metterli in freezer per la conventio ad excludendum. È stato questo mancato incontro il grande rimpianto di Scalfari.
L’ultima sua battaglia, in sostanza persa, è stata contro Silvio Berlusconi, il proto-populista, spavaldo come pochi davanti ad ogni ostacolo sulla strada del dominio politico che, per lunghi anni, ha esercitato, e in parte ancora esercita sull’Italia. Grazie di tutto Barbapapà, e ti sia lieve la terra.
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