Massimo Recalcati è un affermato psicanalista, ma i suoi giudizi sul Pd – “Il nuovo Pd e lo strabismo di Elly Schlein” sulla Stampa del 9 luglio – sembrano dettati più da uno spirito di fazione politica che non dalla psicanalisi cui dichiara di attingere a piene mani. Celiando, verrebbe da dire in buon milanese “ofelè fa el to mestè”. Egli dovrebbe essere avvertito dei limiti di una stretta applicazione delle categorie della psicanalisi alla politica.

Due mondi lontani: Freud fece una dedica a Mussolini. Operazione suggestiva, l’accostamento, e tuttavia fuorviante. Si pensi all’innamoramento del Nostro per Renzi, che non può essere celebrato come pietra di paragone di ogni buon riformismo e il cui approdo dovrebbe suggerire una qualche riflessione critica e autocritica. Facile accodarsi alla critica del mito delle primarie, il doppio turno, prima gli iscritti poi gli elettori.

Ma si deve coltivare un po’ di memoria:

  • a) esse furono concepite a fronte di partiti decadenti ostaggio dei padroni delle tessere al fine di allargare la partecipazione a cittadini-elettori talvolta più “liberi” e motivati degli iscritti, nonché a sparigliare il sindacato di blocco tra correnti cristallizzate;
  • b) a concepire quello statuto furono proprio quei liberal-riformisti cui va la simpatia di Recalcati, in polemica più o meno dichiarata con la vecchia forma-partito modulo Pci.

Quale riformismo

Giusto ridiscuterne, lo si sta facendo da tempo, ma non si può liquidare la questione con una battuta irridente. Di più: anche noi pensiamo che si possa riconsiderare lo statuto Pd di sicuro datato, ma ciò non ci impedisce di osservare che quella regola singolare si sia rivelata una opportunità, se si vuole uno scossone provvidenziale, salvo esorcizzare il limite cui si era spinta la crisi del Pd. Un partito sconfitto, privo di un’identità riconoscibile. Ridotto a uno stato comatoso al punto da indurre taluni a parlare di scioglimento.

Lascia basiti la schematica opposizione tra riformisti e massimalisti sbrigativamente classificati secondo i gusti di Recalcati. Gli uni saggi, gli altri velleitari ed estremisti. Quasi eretici per chi si impanca a esclusivo, dogmatico interprete del riformismo. Quello che piace a lui.

Come se la questione non fosse oggetto, da una vita, di elaborazione e confronto a sinistra. Un dibattito che sembra del tutto ignoto a Recalcati. Da sempre si discute e ci si divide sull’idea-concetto di riformismo. Dovrebbe essere acquisito che non ve ne è uno solo.

Ancora: come se il suddetto, imprecisato riformismo buono non fosse comunque da definire e ridefinire contestualizzandolo; come se, con quel che è successo nel mondo dalla nascita del PD (deglobalizzazione, crisi finanziaria, pandemia, guerra), non fosse cambiato nulla così da costringerci a ripensare i vecchi paradigmi ma anche quelli più recenti in auge alla fine del Novecento.

Un destino ineluttabile?

Infine – a riprova dello schematismo del giudizio - davvero si può considerare Bersani (e con lui Epifani o Errani) un massimalista? Uomo di sinistra sì, ma pragmatico e persino sensibile a issues care ai liberali riformisti (si pensi alle sue privatizzazioni).

Basta non rinnegare il keynesismo, ancorché rivisitato e aggiornato, per essere bollati come massimalisti? Un tale approccio, ci sia consentito, superficiale e manicheo, conduce alla conclusione che il Pd debba di necessità dividersi. Può darsi finisca così.

Ma è una conclusione cui noi, come Prodi, non ci vogliamo rassegnare. Specie se essa è originata da un pensiero tanto sorprendentemente disinformato circa una discussione aperta ben altrimenti ricca e articolata.
 

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