- Le democrazie muoiono quando si smette di lottare per tenerle in vita. A questo serve la memoria pubblica. A ricordare da dove veniamo: le tragedie e i lutti causati concezioni aberranti della nazione, dello stato, della razza.
- «La storia non si ripete parola per parola», scrivono Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, «però le parole della storia di oggi fanno rima con quelle del passato». La memoria serve a «scovare queste rime, prima che sia troppo tardi».
- Curare la democrazia significa riconoscere e affrontare le patologie e preoccuparsi della sua buona salute. Sapendo che è sempre un artificio umano fragile, che sopravvive solo grazie alla passione per l’eguaglianza e la libertà.
Come muoiono le democrazie? Secondo i politologi Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, siamo abituati a immaginare che possano finire solo rovesciate da violente azioni militari, ma non è così. Oggi le democrazie muoiono per via elettorale, quando al potere salgono leader e partiti con tendenze autoritarie che riescono a conservarne la facciata e a svuotarne la sostanza. Così, «non essendoci un singolo momento – colpo di stato, proclamazione della legge marziale, sospensione della Costituzione – in cui un regime "varca” chiaramente il confine che separa la democrazia dalla dittatura, viene meno l’elemento che fa scattare i campanelli d’allarme nella società».
L’allarme non suona, o suona flebile e stanco, anche perché si raffredda il sentimento. Quando intere generazioni cresciute all’ombra della democrazia, abituate a trattarla come un fatto di natura, smettono di lottare per tenerla in vita, subentra l’indifferenza. Può farsi strada allora persino l’insofferenza per la lentezza delle procedure o i vincoli dello stato di diritto, che – secondo alcuni – non permettono di reggere il confronto con i regimi autoritari di fronte a grandi emergenze come una pandemia. A questo serve la memoria pubblica. Serve a ricordare da dove veniamo: le imprese e le fatiche di chi ha lottato per i principi dell’eguaglianza e della libertà, ma anche le tragedie e i lutti causati da regimi storici che hanno negato questi principi in nome di concezioni aberranti della nazione, dello stato, della razza.
Testimonianza pubblica
Il Giorno della memoria, il 27 gennaio, è stato istituito per rievocare le pagine più buie del Novecento: la Shoah, le leggi razziali, le storie di deportazione e la morte, e quelle di coloro che, opponendosi al progetto di sterminio, hanno messo a rischio la loro vita. L’obiettivo della ricorrenza non è solo sottrarre queste pagine dal rischio dell’oblio, ma anche alimentare la testimonianza pubblica della democrazia e della pace. Per il presente e per il futuro. Come dice Liliana Segre, «coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l'indifferenza». Poche settimane fa abbiamo assistito negli Stati Uniti alla manifestazione pubblica di un suprematismo bianco che pretende di rappresentare la “vera” America. Vediamo, anche in Europa, la crescita di sentimenti xenofobi e razzisti, insieme all’avanzare di forze politiche che – con le loro campagne anti-immigrazione – si arrogano il diritto di decidere quali vite umane hanno più valore.
Le nostre democrazie nascono invece proprio dalla promessa di superare la mostruosità degli esperimenti totalitari, affermando che le vite, tutte le vite, contano. Forti di questo credo, siamo obbligati non solo alla memoria dei traumi del passato, ma anche al ricordo pubblico dei lutti del presente. Al contrario, la negazione della morte e del compianto si sposa con le tendenze autoritarie che covano in seno alle democrazie, come la figura di Donald Trump ha reso plasticamente evidente. In un articolo pubblicato dal Guardian, Judith Butler parla della «resistenza di Trump al lutto pubblico» per le vittime del Covid-19. E ritiene che questo sia legato «all'orgoglio nazionalista e persino alla supremazia bianca», perché nega la realtà di una pandemia in cui «le comunità di colore sono più negativamente colpite, comprese le popolazioni indigene».
È significativo, perciò, che il primo atto di Joe Biden e Kamala Harris, alla vigilia del giorno dell’insediamento presidenziale, sia stata la cerimonia per le oltre 400mila persone morte negli Stati Uniti per effetto del virus. Una cerimonia, come hanno detto, «per ricordare chi non c'è più e per guarire». Per combattere l’epidemia, s’intende, ma anche per sanare le ferite inflitte al patto sociale. Di linguaggio della guarigione sono intrisi i discorsi del nuovo presidente. La guarigione, si sa, richiede cura. E per la democrazia la prima cura è il ricordo delle vite perdute, in un tempo vicino e lontano, quando questo serve ad affermare la loro dignità di lutto. «La storia non si ripete parola per parola», scrivono Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, «però le parole della storia di oggi fanno rima con quelle del passato». La memoria serve a questo, a «scovare queste rime, prima che sia troppo tardi». Curare la democrazia significa riconoscere e affrontare le patologie che rischiano di esaurirla dall’interno, e preoccuparsi della sua buona salute. Sapendo che non è un realtà naturale, ma sempre un artificio umano fragile, che vive nella storia e sopravvive solo grazie alla passione per l’eguaglianza e la libertà.
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