- Il cammino per la conquista di una piena libertà appare ancora lungo e difficile ad ogni latitudine.
- Per questo si chiama “Tull Quadze”, ovvero “tutte le donne” in lingua pashtun, la manifestazione convocata il 25 settembre a Roma, in Piazza del Popolo.
- La mobilitazione nasce come un grido di protesta contro le ingiustizie, le diseguaglianze, le vecchie e nuove povertà che la crisi del Covid-19 ha portato alla luce.
«Quando tutte le donne del mondo…»: cominciava con queste parole un famoso articolo del 1976 di Simone de Beauvoir che celebrava il nuovo internazionalismo femminista. «Quali che siano regimi, leggi, costumi, ambiente sociale, tutte le donne subiscono un’oppressione specifica».
Nei quarantacinque anni trascorsi da allora, è avanzata grandemente la consapevolezza delle differenze di nazionalità, classe, “razza”, religione, orientamento sessuale, che impediscono di parlare di “donne” come di un collettivo omogeneo.
Non è venuta meno, però, la forza di quel “tutte”: perché il cammino per la conquista di una piena libertà appare ancora lungo e difficile ad ogni latitudine, e perché nelle alleanze allacciate attraverso i confini sta ancora la forza della ribellione femminile contro il «fondo comune di oppressione».
“Tull Quadze”, ovvero “tutte le donne” in lingua pashtun, si chiama la manifestazione convocata il 25 settembre a Roma, in Piazza del Popolo, dall’Assemblea della Magnolia, una realtà promossa dalla Casa internazionale delle donne nel contesto della pandemia di Covid-19, che ha visto la partecipazioni di gruppi, associazioni e singole da tutta l’Italia.
Di fronte alla crisi afghana, e alle azioni con cui le donne stanno sfidando il regime talebano, l’appuntamento si è trasformato in un’occasione per unire il versante della Storia, in maiuscolo, con le tante (troppe) storie personali di violenza e discriminazione.
Non in un solo paese
La mobilitazione nasce come un grido di protesta contro le ingiustizie, le diseguaglianze, le vecchie e nuove povertà che la crisi del Covid-19 ha portato alla luce, che hanno radici in decenni di smantellamento del welfare e di impoverimento della sanità pubblica, il cui costo ricade largamente sulle spalle delle donne.
Ad animarla però è anche la volontà di proporre un altro sguardo, un’altra visione: pensieri lunghi e scelte coraggiose per non ripetere le vecchie ricette, per non riproporre lo stesso modello di produzione e consumo che comporta sfruttamento, guerre, distruzione ambientale, per non rilegittimare le politiche liberiste di cui proprio la pandemia ha svelato fallimento.
Al centro, c’è la nozione di “cura”, parola molto presente nel discorso pubblico durante l’emergenza sanitaria, ma che nel pensiero e nella politica femminista assume un significato ben più radicale. Una “rivoluzione della cura”, come quella di cui parla il manifesto di convocazione della manifestazione, esige una politica che investa e dia valore alle attività di cura, che parta dai bisogni vitali delle persone, e dell’ambiente che unisce umani e non-umani, per garantire l’accesso universale a sanità, educazione, cultura, bellezza, aria e acqua pulite, trasporti sostenibili.
Quello che va in piazza è quindi un femminismo che non rivendica (solo) diritti ma offre uno sguardo sul mondo, che per questo non si limita a un “noi” ristretto ma attraversa i confini, invocando una nuova solidarietà internazionale, un approccio globale ai problemi del pianeta, e politiche umane su migrazioni e asilo. La “rivoluzione della cura” non fa in un solo paese.
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