- Sono due decenni che si assiste allo scempio che le Iene fanno del giornalismo, che accettiamo le immagini di macchiette in giacca e cravatta all’inseguimento di persone per strada, sul proprio posto di lavoro, nelle proprie abitazioni private.
- A microfoni sbattuti sui denti per strappare manate e parolacce che serviranno a dimostrare chi è il cattivo, a errori grossolani, a giustizialismo spacciato per giustizia, a ghigliottina spacciata per giornalismo.
- La tv usata come manganello sui detrattori, da sempre.
Le Iene sono un programma socialmente pericoloso. Lo sostengo da anni, ho scritto numerosi articoli (l’ultimo due settimane fa) denunciando la disinformazione che la squadra di Davide Parenti continua a diffondere da Stamina in poi, ma il problema non è mai stato solo questo.
Come più volte ho ricordato, il problema a monte è il metodo. Sono due decenni che si assiste allo scempio che le Iene fanno del giornalismo, che accettiamo le immagini di macchiette in giacca e cravatta all’inseguimento di persone per strada, sul proprio posto di lavoro, nelle proprie abitazioni private. A microfoni sbattuti sui denti per strappare manate e parolacce che serviranno a dimostrare chi è il cattivo, a errori grossolani, a giustizialismo spacciato per giustizia, a ghigliottina spacciata per giornalismo.
La tv usata come manganello sui detrattori, da sempre.
E’ per questo che quello che è accaduto in questi giorni – il suicidio di un uomo a seguito di un servizio di Matteo Viviani e Marco Fubini de Le Iene- non mi stupisce affatto.
I precedenti
Il metodo di lavoro di Matteo Viviani è noto e ne avevo parlato su Domani di recente. L’inviato, ex modello e ballerino in discoteca, è anche quello che fece disinformazione sul fenomeno Blue Whale (che non è mai stato un fenomeno, per giunta) montando immagini di finti suicidi di adolescenti con conseguenze molto gravi.
Ma è anche colui che si occupa spesso di pedofilia utilizzando il mezzo tv con estrema superficialità quando va bene e con drammatiche conseguenze quando va meno bene.
Un prete, nel 2010, si è gettato sotto un treno a seguito di un servizio di Viviani in cui un attore lo aveva trascinato in una trappola per dimostrare che adescasse ragazzini. Ovviamente quel prete era stato riconosciuto, licenziato, si sentiva addosso lo stigma.
«II suicidio del prete mi ha scosso, sì. Quando, dall’altra parte, c’è una persona palesemente colpevole di qualcosa di orribile come può essere la pedofilia, tutti noi ci siamo autorizzati a scrivere ‘Ti sparerei’, ‘Ammazzati’. Ma quando vieni a sapere che una persona si è tolta la vita a causa dell’interazione che ci è stata fra te e lui… beh, pensi tanto. Pensi ai suoi genitori. Pensi alle persone, ignare della sua ‘deviazione’, che gli volevano bene. Non soffrire di una simile notizia denoterebbe ottusità mentale. Ho tanti difetti, ma non quello di essere ottuso», aveva dichiarato proprio Matteo Viviani in un’intervista sull’accaduto.
Dopo dieci anni, un altro uomo si è suicidato a seguito di un servizio da lui confezionato: ben 22 minuti, roba che neppure su Totò Riina. Ma andiamo ai fatti.
Catfishing
Matteo Viviani ha raccontato la brutta storia di catfishing con epilogo drammatico che ha coinvolto Roberto, 64 anni, e il ventiquattrenne Daniele. Il catfishing è una sorta di inganno via web che consiste nel crearsi un’identità falsa per raggirare gli altri, spesso intrattenendo rapporti sentimentali che durano mesi o anni e non necessariamente a scopo di lucro.
Talvolta, dietro a questi inganni, ci sono persone con disturbi della personalità o che fanno fatica ad ammettere il proprio orientamento sessuale e che dietro una falsa identità sui social possono essere quello che non riescono ad essere nella vita reale: uomini che si fingono donne e viceversa.
In questo caso, il sessantaquattrenne Roberto fingeva di essere un’avvenente ragazza di nome Irene. Con questa falsa identità aveva adescato Daniele, con cui aveva avuto una relazione virtuale per circa un anno, finché l’altro non aveva scoperto l’inganno e si era suicidato.
Era seguito un processo, il sessantaquattrenne era stato condannato a una multa per sostituzione di persona ma non era stato ritenuto colpevole del suicidio del ragazzo (le altre ipotesi di reato erano state archiviate). Insomma, tra processo e multa, Roberto aveva pagato il suo debito con la giustizia. I genitori del ragazzo suicida però ritenevano comprensibilmente che la giustizia fosse stata troppo clemente con lui e se ne erano lamentati pubblicamente, chiedendo maggiore severità per queste condotte.
Doppia punizione
E qui arrivano le Iene. Iene che non si accontentano di raccontare la storia e accendere una luce su quanto si possa arrecare dolore con le truffe sentimentali, no, dovevano andare a caccia del colpevole. Le legge non lo ha punito a sufficienza, serve la gogna in prima serata. Serve che il giudice- poliziotto Matteo Viviani vada a stanarlo.
Un po’ come il Dexter della serie americana che fa a pezzi con la motosega i criminali che se la sono scampata con la giustizia. Il servizio è agghiacciante.
Viviani compie l’agguato: insegue questo signore per le stradine di Forlimpopoli, 13.000 abitanti, senza uno traccio di pietà per il contesto. Roberto infatti, quando viene assalito dalle telecamere, sta spingendo la sua anziana madre in carrozzina. E’ dunque presumibilmente il suo caregiver. «Perchè lo hai fatto?», «Quale era il tuo scopo?», gli urla per strada.
Roberto, che non sembra una persona in uno stato mentale normalissimo, gli urla di lasciarlo, accelera il passo, la carrozzina con la madre sopra sbatte su una colonna, la signora anziana spaventata grida, volano dei fogli, un signore in monopattino si ferma per aiutare l’anziana che ne frattempo era stata scagliata con la sua sedia a rotelle contro Viviani.
Viviani continua, legge ad alta voce i messaggi che l’uomo inviava via chat al ragazzo suicida. Legge anche messaggi sessualmente espliciti, tipo «Voglio vedere il tuo ca..o duro», messaggi che non hanno alcuna utilità ai fini della ricostruzione giornalistica, ma che servono solo ad alimentare il senso di vergogna.
Intanto viene inquadrata l’abitazione dell’uomo. Vengono rubate delle frasi registrate di nascosto. Tutti in paese lo riconoscono. A questa gogna si aggiungono interviste a una psicanalista che mai aveva incontrato l’uomo e che rincara la dose sottolineando il suo piacere sadico nel fare ciò. E stabilendo che c’è una causa-effetto chiarissima tra la condotta di Roberto e il suicidio di Daniele.
Evidentemente la psicanalista Giuliana Barberi conosce molto poco le dinamiche del catfishing perché non si tratta necessariamente di sadismo ma anche, per esempio, di un problema di identità sessuale. E il fatto che questi individui (per esempio Roberto) costruiscano una rete di fake compresi finti amici e parenti del loro fake principale, cosa che Viviani trova essere un’aggravante sorprendente, è un elemento tipico in questi fenomeni. Alcun costruiscono interi finti alberi genealogici.
La psicanalista non si è preoccupata neppure di capire che vita potesse fare un anziano che si prende cura di una madre disabile, non si è domandata se la costruzione di identità meravigliose nel virtuale non possa rendere meno brutte vite faticose.
La depressione
Nel servizio, poi, viene fuori che il povero Daniele aveva confessato al fake di soffrire di depressione, e in effetti nella lettera di addio confessa di non aver avuto mai amici o fidanzate. Alla finta Irene diceva: «Sei la cosa più bella che mi sia capitata nella vita». A 24 anni non aveva mai avuto rapporti sessuali.
Pur col massimo rispetto per il suo dolore e con profondo disgusto per l’inganno che aveva subito, non si può dire che il suicidio sia avvenuto in un contesto privo di concause.
Esisteva una sofferenza pregressa, probabilmente non compresa nel profondo da chi lo amava o forse dissimulata bene.
Questo servizio de Le Iene, così feroce nei confronti di un uomo che per quanto colpevole non si poteva rieducare con un agguato mortificante e la vergogna mediatica, ha provocato un’ondata di violenza nei confronti di Roberto: messaggi di odio sui social, minacce, insulti.
E poi dei manifesti apparsi nel suo paese dove ormai tutti sapevano chi fosse con la scritta “devi morire”. Anche Roberto, travolto da vergogna e sensi di colpa, si è tolto la vita mandando giù un mix di farmaci. Matteo Viviani può essere soddisfatto, giustizia è fatta.
Del resto gliel’aveva gridato per strada: «Fino all’ultimo continueremo a chiedere perché lo hai fatto!». Ecco, quell’uomo ha capito che la sua vergogna avrebbe avuto un vestito preciso: il completino giacca e cravatta nero del grande giustiziere de Le iene. Chi sarà la prossima vittima?
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