Quando questa Cop finirà fra le altre cose ci ricorderemo dell’aumento esponenziale dei lobbisti delle industrie ad alto impatto in termini di emissioni. Il loro numero è aumentato di Cop in Cop. Alcuni di loro fanno parte delle delegazioni nazionali, cioè dei rappresentanti degli stati membri della Convenzione.
Il Guardian ha recentemente dato conto della presenza di lobbisti dell’industria agro-alimentare, in una Cop che fa particolare attenzione al cibo.
Sempre sul Guardian, George Mombiot ha concluso che, così stando le cose, le Cop sono una farsa destinata al fallimento e ha richiamato la proposta di Anthony Burke di seguire, su queste materie, un processo di mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale che porti a trattati molto più vincolanti, come sono stati il trattato del 2017 sul bando delle armi nucleari, la convenzione sulle mine del 1997 e quella del 2008 sulle bombe a grappolo.
Così facendo, suggeriscono Mombiot e Burke, si dovrebbe arrivare a un trattato di non proliferazione dei combustibili fossili. Su questo giornale ho suggerito qualcosa di simile per sanare il deficit democratico e di diritto delle Cop.
Una presenza eterna
Ma tutto questo non basta a risolvere il problema delle lobby del fossile e di altri settori industriali ad alta emissione. La nostra reazione immediata, cioè l’istinto di cacciare i lobbisti da questa e dalle future Cop, è comprensibile, ma del tutto inutile.
Le lobby del fossile saranno sempre presenti, in un qualche modo. Potranno influenzare a loro favore il processo di redazione di nuovo diritto dell’ambiente.
Potranno ostacolarne l’applicazione, suggerendo scappatoie. Inoltre, le politiche di mitigazione ed adattamento non possono fare a meno dei settori industriali. Quelli che debbono passare alle energie rinnovabili sono loro. Quelli che debbono attutire il colpo che lavoratori e consumatori potrebbero avere dai costi della decarbonizzazione sono, insieme ai governi, sempre loro.
Da questa situazione non possiamo uscire con le aziende fossili, ma neanche senza di loro.
La strada è regolamentare
La riforma delle negoziazioni climatiche dovrebbe passare anche per un meccanismo regolato di lobbying. Quante persone rappresentano gli interessi degli azionisti delle aziende coinvolte a vario titolo nella transizione ecologica dovrebbe essere un dato noto e pubblico, ben prima di ogni Cop o altra assemblea importante, e la conoscenza del dato non dovrebbe essere affidata al giornalismo investigativo.
Il numero di rappresentanti e il tipo di coinvolgimento dovrebbe essere regolato da leggi nazionali e internazionali: i lobbisti non dovrebbero poter partecipare alla redazione di documenti ufficiali che stabiliscono politiche climatiche vincolanti e i contatti fra lobbisti e personale politico dovrebbero essere regolati e resi noti immediatamente, pena sanzioni draconiane, come l’esclusione dai lavori.
Ogni paese che includa rappresentanti di aziende nelle delegazioni ufficiali dovrebbe essere additato all’opinione pubblica e possibilmente sanzionato. La presenza di lobbisti dovrebbe rispondere a principi di democrazia: tutte le aziende dovrebbero essere rappresentate, e tutti i gruppi di interessi dovrebbero avere i loro lobbisti – gli ambientalisti, per esempio, e i lavoratori delle aziende.
È ovvio che le politiche climatiche sono attraversate da profondi conflitti di interessi: fra individui presenti e futuri, fra cittadini di paesi industriali avanzati e cittadini di paesi che hanno economie diverse, fra chi causa il cambiamento climatico e chi ne è o sarà vittima, fra i lavoratori nei settori ad alta emissione e i lavoratori in settori che usano energie alternative, fra lavoratori e azionisti, fra lavoratori e consumatori.
Questi conflitti debbono venire chiaramente alla luce e venire regolati. La politica ha il dovere di regolare i conflitti di interessi, non di schierarsi. Ma per farlo non serve né cacciare alcuni interessi dalla discussione, né nascondere la loro partecipazione.
Anche questo è greenwashing, in un certo senso: immaginare una discussione solo fra movimenti di giustizia climatica e politici è un sogno.
La realtà è diversa: le politiche del clima sono quanto di più simile alla lotta fra interessi, a una contrattazione sindacale globale. Meglio abituarcisi e regolare al più presto il conflitto. Prima che dell’assenza di regole facciano le spese i più deboli, le generazioni future e il pianeta.
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