Agli israeliani non manca l’intelligenza politica per capire che questo ennesimo conflitto è di tipo superiore ai precedenti e che la vittoria sul campo non sarà sufficiente
Le opinioni pubbliche da sole non vincono le guerre. Possono, però, farle perdere. Senza il sostegno dell’opinione pubblica ucraina e delle opinioni pubbliche europee e degli Usa, il presidente Zelensky avrebbe già dovuto cedere all’aggressione russa.
Se in Russia fosse possibile la formazione di un’opinione pubblica, Putin avrebbe incontrato fin dall’inizio molte difficoltà a lanciare la sua “operazione militare speciale”; ancora più numerose difficoltà avrebbero fatto la loro comparsa nel mantenerla di fronte agli evidenti insuccessi.
Da parte sua impedire e bloccare le informazioni su quel che (non) succede sul territorio ucraino è la logica conseguenza del timore di reazioni dell’opinione pubblica che ricevesse quelle informazioni.
L’opinione pubblica
L’opinione pubblica in Israele, prima dell’assalto di Hamas, era profondamente divisa tra sostegno e critiche al governo di Netanyahu e allo stesso primo ministro. La guerra ha prodotto un riallineamento immediato a sostegno delle attività militari con le quali punire Hamas e garantire la sicurezza dello stato di Israele e la vita dei suoi cittadini.
Rimane o, meglio, è emerso anche un dissenso su fino a che punto debba arrivare la rappresaglia israeliana, parte dell’opinione pubblica obiettando a misure contro i civili ritenute eccessive e molto criticate non solo da intellettuali di prestigio.
Non sono esclusivamente quelle misure, che continuano e non è possibile prevedere quando finiranno, e a quale prezzo per la popolazione civile di Gaza, ad avere spinto larga parte delle opinioni pubbliche non europee, ma pure occidentali, ad esempio, in America latina, a schierarsi fondamentalmente a favore dei palestinesi, spesso ricomprendendovi, non a torto, e maggioritariamente contro Israele.
Al proposito, la distinzione che, pure, bisogna sapere e voler fare fra antisionismo e antisemitismo viene sostanzialmente meno. Da buona parte delle opinioni pubbliche, più o meno non-democratiche, ma, ad esempio, Brasile, India, Sudafrica sono regimi democratici, hanno preso le parti dei palestinesi e di chi lotta per loro anche con le armi.
La vittoria non basta
Militarmente è molto probabile che Israele consegua i suoi obiettivi in tempi che forse avrebbe preferito più brevi. Tuttavia, ristabilire la situazione, tutt’altro che ottimale, che esisteva prima del 7 ottobre non garantisce affatto la sicurezza e la vita degli israeliani e del loro Stato.
Quelle opinioni pubbliche internazionali, nelle quali, è opportuno ricordarlo e sottolinearlo, serpeggia sempre una notevole dose di antiamericanismo, non dismetteranno la loro valutazioni negative su Israele, se non addirittura le rafforzeranno.
In vista di qualcosa che sia più, molto più delle tregue e degli armistizi spesso serviti e seguiti da conflitti più sanguinosi, il governo di Israele dovrebbe, forse, procedere a una de-escalation accompagnata da una offensiva diplomatica estesa e di grandi dimensioni.
L’autocontrollo sul campo nell’attacco a Gaza e quindi il favorire tutte le operazioni umanitarie necessarie debbono essere rivendicati molto più che come semplici segnali, ma come azioni concrete per aprire la strada ad un dopoguerra di accordi.
Agli israeliani non manca l’intelligenza politica per capire che questo ennesimo conflitto è di tipo superiore ai precedenti e che la vittoria sul campo non sarà sufficiente. L’obiettivo deve essere, con l’aiuto degli europei e, in misura reale, ma meno visibile, degli Usa mirare a influenzare profondamente, in maniera decisiva le opinioni pubbliche occidentali e soprattutto fuori occidente. Sarebbe/sarà positivo anche in un’ottica globale.
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