- Le proteste in Iran non accennano a diminuire nonostante la dura repressione da parte delle forze di sicurezza.
- Rispetto alle precedenti ondate di manifestazioni che avevano coinvolto il paese, quelle a cui stiamo assistendo oggi sfidano apertamente i valori della Repubblica Islamica.
- Le proteste che rischiano di avere ripercussioni sulla politica iraniana, indebolendo l’attuale compagine di governo guidata dai conservatori, e che nella speranza dei manifestanti potrebbero portare a concessioni sul piano dei diritti civili.
Le proteste in Iran non accennano a diminuire nonostante la dura repressione da parte delle forze di sicurezza. Rispetto alle precedenti ondate di manifestazioni che avevano coinvolto il paese, quelle a cui stiamo assistendo oggi sfidano apertamente i valori della Repubblica Islamica. L’ondata di proteste a seguito della morte di Mahsa Amini, 22enne curda in vacanza a Teheran, rea di aver male indossato il suo hijab e per questo fermata dalla polizia della morale iraniana (Gasht-e Ershad), è degna di nota non solo per la portata ma soprattutto per il messaggio che accomuna le manifestazioni.
Le proteste, sviluppatesi in decine di città iraniane e che in alcuni centri urbani hanno assunto le sembianze di una guerriglia, hanno una caratteristica che le differenzia rispetto a quanto visto negli scorsi anni: l’attacco a determinati valori della Repubblica Islamica, che viene criticata nelle sue fondamenta.
“Morte al dittatore”
Al momento le proteste, di carattere ancora spontaneo anche a causa dei problemi organizzativi dovuti alle limitazioni all’utilizzo di internet imposte dal regime, vedono una partecipazione piuttosto eterogenea che supera la questione di genere.
Negli ultimi anni, infatti, le manifestazioni contro l’imposizione del velo hanno riguardato perlopiù parte della popolazione femminile delle grandi città, e sono stati atti simbolici e isolati, più simili a sit-in che a vere e proprie proteste.
Si ricorda, su tutte, l’immagine di Vida Movadeh, la giovane che nel dicembre del 2017 legò il suo hijab ad un bastone sventolandolo come fosse una bandiera nel centro di Teheran.
Immagine che fece il giro del mondo e diede il via ad un movimento di giovani donne, “le ragazze di Enghelab Street”, che imitarono nei mesi successivi il gesto di Movadeh in segno di protesta contro le rigide regole di decoro presenti in Iran.
Quello a cui si assiste in questi giorni, invece, sono una serie di manifestazioni fortemente partecipate, anche e soprattutto da uomini, che solidarizzano con la battaglia delle donne iraniane, e applaudono mentre queste bruciano i loro veli o scoprono il capo.
E soprattutto, gli slogan che vengono ripetuti nel corso delle proteste sono un continuo attacco alle istituzioni islamiche e ai loro leader. “Morte al dittatore”; “morte all’oppressore, che si tratti del Re o del leader supremo”; “donne, vita e libertà” sono i cori che si ascoltano nelle piazze e che girano in maniera virale sui social network.
Le differenze con il passato
Non è la prima volta che la popolazione iraniana è scesa in piazza per manifestare in maniera feroce. Negli ultimi anni abbiamo assistito a diverse ondate di proteste estremamente violente, sedate in maniera brutale dalla polizia nel corso delle settimane.
E in molte manifestazioni si sono ascoltati cori simili a quelli sopra descritti, inneggianti alla fine della Repubblica Islamica e accusatori nei confronti dell’establishment politico-religioso.
Qual è allora la principale differenza tra le proteste di questi giorni con quelle passate? La causa scatenante.
Per quanto una certa sofferenza nei confronti dell’assetto istituzionale sia predominante in alcuni strati della popolazione iraniana, e di conseguenza ogni ondata di proteste in passato è stata segnata anche da messaggi e slogan contro il regime, le motivazioni primarie andavano cercate in fattori socioeconomici e politici.
Andando a ritroso nel tempo, si ricordano le forti proteste dell’estate del 2021, nate per una grave crisi idrica nella regione del Khuzestan; o le due ondate di protesta, molto violente, iniziate rispettivamente a fine 2017 e fine 2019, entrambe scaturite dall’aumento dei prezzi del carburante, che hanno coinvolto gli strati più umili della società iraniana e sono state cavalcate dai partiti più conservatori per attaccare il governo di Rohani; o le oceaniche manifestazioni del 2009, passate alla storia come “Movimento verde”, nate per denunciare i presunti brogli elettorali che portarono alla rielezione del conservatore Ahmadinejad ai danni del riformista Mousavi.
In tutti questi casi le manifestazioni avevano una chiara causa scatenante, una volta economica, una volta politica, e gli attacchi ai valori della Repubblica Islamica allargavano il perimetro delle proteste in funzione strumentale.
Al contrario, questa volta, la protesta nasce da un episodio che tocca un aspetto fondante dei valori islamici imposti dalla Rivoluzione del 1979, riguarda la vita delle donne in Iran, e trova terreno fertile a causa delle gravi condizioni economiche in cui riversa il paese.
Donne e giovani
Negli ultimi anni della monarchia le donne iraniane ottennero nuovi diritti, che vennero progressivamente eliminati dopo l’avvento della rivoluzione islamica del 1979.
Nei mesi successivi alla rivoluzione, con l’approvazione della nuova Costituzione e dell’intero corpus normativo civile e penale ispirato ai princìpi islamici, il regime degli ayatollah ha smantellato le riforme del Re e ristretto il perimetro delle libertà individuali delle donne.
L’abbassamento dell’età per il matrimonio a 9 anni (alzata a 13 nel 2002), il ritorno della poligamia, le limitazioni per i viaggi, le difficoltà per richiedere l’apertura della pratica per il divorzio, la perdita dell’affidamento dei figli in caso di nuovo matrimonio, ma soprattutto l’imposizione di un codice di abbigliamento: l’obbligo del velo e di un vestiario modesto sin dalla pubertà.
Regolato dall’articolo 638 del Codice penale islamico, che stabilisce che chiunque nelle strade compia un atto considerato haram (proibito) venga punito con due mesi di reclusione o 74 frustate, le donne che non indossano il velo in pubblico rischiano fino a 2 mesi di carcere e una multa pecuniaria.
Regole di “moralità” che passeggiando per le strade di Teheran mostrano tutto il loro anacronismo: un paese fatto di giovani uomini e donne, altamente scolarizzati, aperti al mondo ed eredi di una cultura millenaria.
I dati sull’alta scolarizzazione universitaria che si scontrano, inoltre, con i pessimi numeri sull’occupazione giovanile, contribuendo ad un sentimento di disillusione diffuso che può fare da detonatore alle proteste di piazza.
Le conseguenze
Per quanto tali proteste siano un campanello d’allarme per la tenuta della Repubblica islamica, è difficile pensare uno scenario di transizione violenta che porti ad un cambiamento nell’assetto istituzionale iraniano.
Nelle due rivoluzioni che hanno coinvolto l’Iran nel Novecento (quella costituzionalista del 1906 e quella islamica del 1979) si sono riscontrati elementi comuni che ancora non si vedono nelle manifestazioni di oggi.
In entrambi gli episodi del Novecento il movimento rivoluzionario era eterogeneo, coinvolgeva cittadini comuni ma allo stesso tempo le classi imprenditoriali e dei religiosi.
Un qualcosa che oggi è ancora difficile da immaginare, considerata l’importanza politico ed economica dei religiosi, la stabilità delle oligarchie imprenditoriali vicine al potere e la pervasività degli apparati di sicurezza del regime.
Altro fattore da considerare è la scarsa attenzione degli attori internazionali nei confronti dell’Iran, viste le gravi instabilità causate dalla guerra in Ucraina: Biden nel suo discorso all’Onu ha dichiarato di essere vicino ai manifestanti, sulla falsa riga di quanto fatto da Obama nel 2009 quando appoggiò tiepidamente le proteste in Iran, ma gli Stati Uniti ad oggi hanno altre priorità.
Certamente le proteste sono un colpo alla reputazione del presidente conservatore Raisi, che ha affrontato il discorso all’assemblea generale dell’Onu - suo primo appuntamento internazionale di alto livello - fortemente delegittimato.
Proteste che rischiano di avere ripercussioni sulla politica iraniana, indebolendo l’attuale compagine di governo guidata dai conservatori, e che nella speranza dei manifestanti potrebbero portare a concessioni sul piano dei diritti civili.
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