- In pochi giorni Saipem è crollata in Borsa del 44 per cento. Le perdite per i soci di controllo Eni e Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) sono ingenti: ora dovranno metter mano al portafoglio per l’aumento di capitale imposto dal salvataggio. Altri soldi pubblici andati in fumo.
- Tutte le sue esperienze di amministratore di Francesco Caio non sono mai durate più di tre anni, ovvero un singolo mandato: non certo un bel biglietto da visita per assicurare la continuità gestionale richiesta da un complesso piano.
- Qualunque siano i criteri di nomina dei manager pubblici, il caso Saipem insegna che, quanto a governace, lo Stato come azionista di controllo lascia molto a desiderare.
In pochi giorni Saipem è crollata in Borsa del 44 per cento. Le perdite per i soci di controllo Eni e Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) sono ingenti: ora dovranno metter mano al portafoglio per l’aumento di capitale imposto dal salvataggio. Altri soldi pubblici andati in fumo. È paradossale che Saipem, operando nel settore energetico, vada in crisi proprio quando il greggio è vicino ai 100 dollari al barile e le società del settore fanno profitti straordinari.
Una crisi che sembra una replica di quella di inizio 2016, quando Saipem perse due terzi del valore: anche allora ci fu un maxi aumento di capitale, e un bagno di sangue per Eni e Cdp. Ma allora il prezzo del greggio era crollato da 100 a 35 dollari.
L’andamento del prezzo del petrolio non è dunque la vera causa delle crisi di Saipem, anche se i grandi movimenti del greggio, a prescindere dal segno, esacerbano una mala gestione latente, una governance manchevole e una strategia aziendale sbagliata.
I limiti dello stato azionista
La vera ragione è che lo Stato azionista, anche attraverso Cdp, di fronte a una crisi aziendale o a un settore in declino, non sa ristrutturare efficacemente. Perché le sue priorità, più che il valore dell’impresa, sono il mantenimento dei posti di lavoro, l’”italianità” ovvero il potere di nominare i vertici, e l’influenza sulla gestione delle aziende pubbliche come strumento per rafforzare il consenso. È questa la prima lezione del “caso Saipem”
Per trovarne conferma, basta ripercorrere la crisi del 2016 (riprendendo un mio articolo su Repubblica del 21/2/2016): «Nonostante il crollo del prezzo del greggio a seguito della crisi mondiale del 2008, Eni ha continuato a investire più di quanto riuscisse a finanziare con le risorse interne; ciò nonostante ha pagato dividendi in media di 3,8 miliardi l’anno. Per farlo, si è indebitata eccessivamente, una situazione aggravata dalla crisi finanziaria della controllata Saipem: crollo del petrolio e cancellazione di commesse non spiegano il suo indebitamento passato da 1,9 miliardi del 2014 ai 6,9 di fine 2015. Sono debiti nei confronti della controllante Eni, che la tiene in vita, e che adesso rischiano di affogare assieme. Così Eni vende per 463 milioni il 12,5 per cento di Saipem a una compiacente Cdp. Insieme lanciano un aumento da 3,5 miliardi che azzera il valore del capitale esistente. Ma grazie ai 463 milioni della Cdp e la riduzione della propria quota, Eni abbatte l'impegno necessario al controllo. Mentre Cdp, tra acquisto e aumento, sborsa 900 milioni per qualcosa che ne vale 430 (oggi 120, ndr). Poi Saipem si indebita sul mercato per rimborsare i 7 miliardi alla controllante Eni: una costosa partita di giro per permettere a Eni di deconsolidare il debito Saipem».
Quella del 2016 non fu dunque una ristrutturazione ma un modo per coprire errori gestionali di Eni e Saipem coi soldi pubblici, preservando lo status quo col pretesto di difendere l”italianità” di un’azienda strategica. Ma non si fece nulla per risanare veramente l’azienda. Come, invece, fece Technip, la concorrente francese di Saipem, che nel maggio del 2016 si fuse con l’americana Fmc per rafforzarsi in un mercato globale difficile e competitivo.
Da noi invece si arriva alla crisi odierna di Saipem: la causa scatenante è l’annuncio di un crollo degli utili, segno che il piano strategico per la riconversione alla green economy di soli sei mesi fa è da gettare.
Troppa italianità
La transizione ambientale di un’impresa comporta un costo enorme perché la pressione degli investitori per la riduzione del carbon footprint svaluta immediatamente le sue attività, rendendo più difficile trovare le risorse per finanziare la riconversione. Lezione numero due.
Molte società inquinanti vendono pezzi di attività a investitori o società a cui il rating verde (Esg) non importa (non quotate, fondi speculativi o fondi sovrani di paesi produttori di greggio) per poi investire il ricavato in progetti green.
Per ogni venditore c’è un compratore e quindi per l’ambiente le cose non cambiano; ma il rating verde di chi vende migliora, a riprova che i criteri Esg spesso sono marketing istituzionale.
Saipem, però, oggi non ha mercato, ammesso che la si voglia vendere. L’alternativa è fonderla con un altro gruppo del settore, a prescindere dalla sua nazionalità e rating Esg, e massimizzare il valore per l’azionista pubblico; e una volta ristrutturata con l’aggregazione, lo Stato potrebbe uscire dal capitale di un’azienda poco green. Come fu fatto con Technip a suo tempo.
Invece da noi prevale la difesa dell’ “italianità” e così si parla di una fusione con l’italiana Maire, per difendere un’azienda “strategica”, senza considerare la “dote” che lo Stato presumibilmente dovrà pagare affinché Maire si accolli Saipem, non avendola ristrutturata, e senza nessun beneficio per il rating Esg delle due società. L’esperienza con WeBuild insegna poi, come in altri casi, che lo Stato azionista è per sempre.
Il fallimento verde di Caio
Per capire come il piano per affrontare la riconversione verde di Saipem sarebbe stato destinato al fallimento, forse bastava leggere l’intervista al Sole-24 Ore (29/10/2021) del suo amministratore delegato Francesco Caio in cui lo definiva «una transizione attraverso un nuovo approccio duale che consente da un lato di continuare a servire i clienti del ciclo tradizionale rispetto alle sollecitazioni di mercato, anche con l’ottimizzazione degli asset, e dall’altro di competere efficacemente nella sfida per la transizione energetica adottando modelli operativi innovativi e flessibili». Sembra una supercazzola del mitico conte Mascetti nel film Amici Miei.
E qui veniamo alla terza lezione: il manager pubblico buono per tutte le stagioni. Scorrendo il lungo cv dell’ing. Caio, vedo che è stato amministratore in Omnitel e Cable and Wireless (telefonia), Nomura e Lehman Brothers (finanza), Indesit (elettrodomestici), Poste Italiane, Ita Airways ex Alitalia, Avio (aeronautica), e da presidente di Saipem, anche consulente del governo per il piano Ilva (acciaio) e per le Tecnologie Digitali e Banda Larga: tutti business che con le trivelle e gli impianti di Saipem c’entrano poco.
Noto inoltre che tutte le sue esperienze di amministratore non sono mai durate più di tre anni, ovvero un singolo mandato: non certo un bel biglietto da visita per assicurare la continuità gestionale richiesta da un complesso piano.
Non ho motivi per dubitare della professionalità dell’ingegner Caio, ma che qualcuno possa avere competenze manageriali in così tanti settori disparati sì.
Quello di Caio però non è un caso isolato: spesso i manager scelti per le imprese a partecipazione pubblica passano indifferentemente da un’azienda all’altra, come in una giostra.
All’estremo opposto ci sono i top manager che invece hanno fatto tutta la carriera all’interno della stessa azienda. L’unica caratteristica che li accumula è il passaporto italiano: probabilmente non ci sono bravi manager stranieri da attirare; o forse sono poco amalgamabili con l’ambiente romano.
Qualunque siano i criteri di nomina dei manager pubblici, il caso Saipem insegna che, quanto a governace, lo Stato come azionista di controllo lascia molto a desiderare.
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